Dai grest al centro di Reggio in circa 1.600

Mentre nelle aule di scuola gli studenti di quinta superiore sudano sul tema della Maturità, la mattina di mercoledì 20 giugno, in piazza del Duomo più centinaia di ragazzi e bambini che hanno già archiviato zaini e verifiche affrontano insieme un’altra prova, che richiede comunque abilità e concentrazione, specie nella “caccia fotografica” che si scatena per le vie del centro storico.
La terza edizione di “Oratorio in piazza”, promossa dalla Diocesi con il suo Servizio di Pastorale Giovanile e dal Centro Sportivo in collaborazione con il Comune di Reggio Emilia, raduna all’insegna della fede e del divertimento circa 1.600 persone: 1.200 sono gli iscritti, con età variabili dalla terza elementare alla terza media, 300 gli educatori e animatori che li accompagnano, il resto sono volontari prestati dalle parrocchie per un ordinato svolgimento delle operazioni, in particolare per presidiare i quindici punti gioco dislocati sulla mappa della giornata, fra il Parco Cervi e piazza Martiri del 7 Luglio.

I gruppi, sedici in totale, arrivano alla spicciolata sotto un sole benaugurante; i più distanti provengono da Boretto, Casina, Castelnovo Monti, Montecchio, Sant’Ilario d’Enza, Novellara, Rio Saliceto, Guastalla, Cavriago (Oratorio Gran Pino), San Giorgio in Sassuolo; per Reggio si presentano al gazebo dell’accoglienza quelli degli Oratori “Don Bosco” di Santa Croce e “San Giovanni Paolo II” di Ospizio, dell’unità pastorale San Pellegrino-Buon Pastore, di Regina Pacis, Roncina e Sant’Anselmo.
Un sottogruppo novellarese arriva da Novellara in bici, trainato dal parroco don Giordano, che non ha perso l’abitudine a fare pastorale pedalando.
Dal sagrato della Cattedrale il brio viene trasmesso anche ai più sonnolenti grazie a sette animatori danzanti dello staff, in maglietta gialla, e da due navigati speaker sotto un cappellino a eliche: Luca Padula, di San Maurizio, in trasferta a Castelnovo Monti per il tempo del campo giochi, e Samuele Adani, formatore del Csi con ampio curriculum di oratorio in città.

 La Libertà del 27 giugno

Previdenza. Pensionati: quattordicesima in arrivo. Ecco quanto e a chi spetta

Pensionati: quattordicesima in arrivo. Ecco quanto e a chi spetta

Buone notizie per i pensionati: è in arrivo la «quattordicesima». Il 2 luglio, infatti, insieme alla rata di pensione l’Inps erogherà la cosiddetta “somma aggiuntiva” (secondo la terminologia tecnica), il cui importo varia da 336 a 655 euro a seconda del numero di anni di contributi con cui ci si è messi a riposo e dal reddito posseduto.

A beneficiarne sono i pensionati che, entro la fine del corrente anno, spegneranno almeno 64 candeline (classe ’54 e precedenti) e i pensionati che incassano un assegno mensile non oltre i 1.100 euro. Potenziali beneficiari, in particolare, sono i titolari di pensioni da lavoro dipendente e lavoro autonomo, a patto che non abbiano redditi personali (non si valuta il reddito dell’eventuale coniuge) superiori a certi limiti.

La legge Bilancio 2017, con decorrenza dall’anno scorso, ha fatto distinzione di due discipline: la prima rivolta ai pensionati che hanno un reddito lordo annuale fino a 9.894,70 euro (fino a 1,5 volte il minimo Inps), cioè circa 825 euro a mese; la seconda a quelli che hanno un reddito superiore e fino a 13.192,92 euro (fino a due volte il minimo Inps), cioè poco meno di 1.100 euro mensili. La prima disciplina riguarda i pensionati che, già fino all’anno 2016, ricevevano la quattordicesima e che hanno avuto la novità, dall’anno scorso, di incassarla con un importo maggiorato del 30% circa rispetto ai precedenti importi. Nello specifico, gli importi cui hanno diritto sono:
• 437,00 euro nel caso di pensionati ex lavoratori dipendenti che hanno fino a 15 anni di contributi versati e nel caso di pensionati ex lavoratori autonomi che hanno fino a 18 anni di contributi versati;
• 546,00 euro nel caso di pensionati ex lavoratori dipendenti che hanno più di 15 e fino a 25 anni di contributi versati e nel caso di pensionati ex lavoratori autonomi che hanno più di 18 e fino a 28 anni di contributi versati;
• 655,00 euro nel caso pensionati ex lavoratori dipendenti che hanno oltre 25 anni di contributi versati e nel caso pensionati ex lavoratori autonomi che hanno oltre 28 anni di contributi versati.
La seconda disciplina riguarda i pensionati con reddito lordo annuale superiore a 9.894,70 euro e fino a 13.192,92 euro. Sono pensionati che, fino all’anno 2016, erano esclusi dalla quattordicesima e che hanno cominciato a riceverla dallo scorso anno. Il prossimo 2 luglio, pertanto, la riceveranno per la seconda volta nei seguenti importi:
• 336,00 euro nel caso di pensionati ex lavoratori dipendenti che hanno fino a 15 anni di contributi versati e nel caso di pensionati ex lavoratori autonomi che hanno fino a 18 anni di contributi versati;
• 420,00 euro nel caso di pensionati ex lavoratori dipendenti che hanno più di 15 e fino a 25 anni di contributi versati e nel caso di pensionati ex lavoratori autonomi che hanno più di 18 e fino a 28 anni di contributi versati;
• 504,00 euro nel caso pensionati ex lavoratori dipendenti che hanno oltre 25 anni di contributi versati e nel caso pensionati ex lavoratori autonomi che hanno oltre 28 anni di contributi versati.

Nell’una e nell’altra disciplina, quando il reddito del pensionato supera di poco il limite per il diritto, ma non l’importo pari al limite più la quattordicesima, viene attribuita un importo di quattordicesima ridotto, ossia in misura tale da non far superare la soglia del limite più la quattordicesima (come indicato in tabella). Ad esempio, nel caso di pensionato ex lavoratore dipendente, in pensione con 33 anni di contributi e reddito personale pari a 13.370 euro, l’importo di quattordicesima spettante è pari a 300 euro. In questo caso, infatti, il reddito del pensionato supera il limite di 13.192,92 euro che attribuisce il diritto alla quattordicesima, ma è inferiore ai 13.696,92 euro che è la somma del limite più l’importo del beneficio spettante (504 euro): l’importo di 300 euro di quattordicesima spettante è pari alla differenza tra la predetta somma di 13.670 euro (limite più quattordicesima) e il reddito del pensionato.

Il pensionato non è tenuto a fare nulla per ricevere la quattordicesima: di norma, infatti, viene erogata dall’Inps automaticamente. Coloro che non la ricevano e ritengano di averne diritto, in ogni caso, possono presentare domanda, on-line sul sito internet dell’Inps (www.inps.gov.it), se in possesso di credenziali di accesso. La prestazione è soggetta a prescrizione quinquennale.

da Avvenire

Urbanesimo e globalizzazione. Le città, senza legami culturali, non hanno più un’anima

Milano vista dal grattacielo più alto d'Italia, la Torre dell'Unicredit

Milano vista dal grattacielo più alto d’Italia, la Torre dell’Unicredit

La città non è soltanto il luogo in cui si è, ma anche quello in cui si vorrebbe essere. Attraversando le strade della città in cui viviamo non possiamo fare a meno di pensare a come vorremmo che fossero. Abitiamo e immaginiamo contestualmente la stessa città, le apparteniamo e allo stesso tempo ci allontaniamo da essa per attribuirle un volto diverso. È questa la tensione vitale e costitutiva dell’urbanesimo. Abitare significa progettare e trasformare i luoghi della vita. Per questa ragione l’habitat urbano non si esaurisce nella somma dei suoi spazi; l’ambiente della città è inappropriabile dal momento che non coincide mai con la realtà abitata o percepita. Esso sfugge a ogni tentativo di contenimento poiché la città non si accontenta di essere rappresentata, ma chiede insistentemente di essere immaginata e cambiata. Anche per questo motivo le comunità cristiane dovrebbero prestare particolare cura e attenzione alla città in trasformazione. La riflessione comune sul “nuovo umanesimo” non può essere oggi disgiunta da quella sul “nuovo urbanesimo”. La città non è mai esclusivamente quella reale, né soltanto quella ideale, è invece qualcosa che eccede le singole parti, senza tuttavia ignorarle o sminuirle. Intere civiltà hanno trovato nella dimensione urbana il proprio ancoramento fondativo non solo perché la città mette ciascuno nelle condizioni di avere un posto all’interno di un insieme composito, ma perché essa educa a pensare l’insieme come una realtà diversa dalla somma delle parti. È oggi possibile oltreché necessario parlare di cristianesimo urbano muovendo dall’idea che «il tutto è superiore alla parte» (Francesco, Evangelii gaudium, n. 234).

Il saggio di Richard Sennett, Costruire e abitare. Etica per la città (Feltrinelli, pagine 364, euro 25), è uno strumento indispensabile per comprendere le trasformazioni dell’urbano contemporaneo. Il libro completa la trilogia che il sociologo statunitense ha dedicato all’Homo faber: dopo aver riflettuto sulla collocazione dell’uomo artigiano nel mondo delle imprese e dei manufatti, dopo aver scandagliato la mente e il cuore dell’uomo collaboratore, Sennett indirizza lo sguardo verso l’uomo urbanizzato. Questo saggio è un invito ad attraversare la complessità dell’urbanizzazione contemporanea con un atteggiamento coinvolto e appassionato.
La città ha perso il suo retroterra. A causa della globalizzazione ogni agglomerato urbano non può essere naturalmente incastonato in un preciso ambiente regionale o nazionale: è la nascita della città globale o meglio della rete delle città globali, metropoli accomunate da traffici economici e da interessi finanziari più che da legami culturali e politici con i rispettivi contesti territoriali. «Come conseguenza della globalizzazione, il vecchio modo di pensare a una struttura politica è diventato obsoleto. Era una concezione simile alla costruzione di matrioske russe, che inserivano l’una dentro l’altra bamboline di dimensioni diverse; i quartieri sono inseriti nelle città, le città nelle regioni, le regioni nelle nazioni. Le città globali non sono più luoghi protetti inseriti in aree più grandi; si sono staccate dagli stati-nazione che le contengono. I più grandi partner dei mercati finanziari di Londra sono Francoforte e New York, non il resto della nazione britannica» (p. 121).

Le conseguenze di queste macroscopiche trasformazioni si riverberano nelle città che quotidianamente frequentiamo o abitiamo. Spezzati i legami e anestetizzati i rapporti con le comunità di vita, compromessi i tentativi di una pianificazione condivisa e partecipata, una città globale rischia di trasformarsi in una città-piovra: «Nuove strade si irradiano come tentacoli, collegando zone urbane in cui viene versato sempre nuovo denaro, unendo per esempio un centro commerciale a un grattacielo di uffici o a un nuovo quartiere residenziale; questi collegamenti attraversano un susseguirsi di quartieri disagiati e trascurati della città, oppure aggirano bidonville, barrios, favelas e insediamenti di squatter […] La piovra urbana è una bestia in cui prima crescono le teste e che poi sviluppa tentacoli per collegarsi a teste, nodi o centri di sviluppo» (p. 123).
La logica dell’urbanizzazione contemporanea ignora la preminenza dell’abitare sul costruire. La pianificazione dei luoghi sminuisce e sovente calpesta le pratiche feriali e fedeli del quotidiano, quelle in cui è ancora possibile “sentirsi a casa” senza rimuovere la fatica di costruire ogni giorno, daccapo, un luogo ospitale. La socialità sobria e coerente dell’urbanesimo di prossimità non si nutre di omogeneità culturale e sociale. La vita urbana è densa prima ancora di essere densamente abitata. Occorre riconoscere nella città il luogo mentale oltreché fisico della complessità e della corposità. Il quotidiano urbano è densamente ricco di simboli e frizioni, si compone di slanci e contraccolpi, non si lascia facilmente striare come vorrebbe l’ossessione globale per i flussi e i facili raccordi. Bisogna imparare a riconoscere l’attrito urbano senza temerlo o demonizzarlo. La vita quotidiana di chi abita e non solo attraversa una città è fatta di incontri mancati o spezzati, di visite inattese e spiazzanti. È questa la materia involontaria e allo stesso tempo vitale dell’attrito urbano. Sono questi i segni di un avamposto di alterità e di una riserva di trascendenza che ancora freme nelle pieghe dei tessuti urbani. Le smart cities, supportate dalla tecnologia user friendly, realizzano paesaggi urbani in cui l’attrito è assente, dove non si pretende nulla dal cittadino o dall’utente. L’abitante della città contemporanea deve essere prima di tutto sgravato, facilitato, alleggerito. In questo modo «il clamore della complessità è messo a tacere dalla comodità» (p. 176).

Occorre che le comunità e le associazioni ecclesiali siano in grado di formulare un’ermeneutica dell’attrito urbano. L’urbanità evangelica si riscontra nella frizione dialogica, non tanto nella contrapposizione dottrinale. Lo stile relazionale e urbano di Gesù si riconosce dal tono e dalla gestualità del contrappunto. Chi da esso si lascia plasmare non può limitarsi a facilitare o esonerare gli individui. Bisogna riconoscere la densità della vita urbana non rimuovendo ma valorizzando gli attriti del tempo feriale, senza farne detriti per il tempo produttivo. «Come può la città aprirsi in modo che l’esperienza diventi più densa?» (p. 191).

da Avvenire

La rivincita della fragilità: abitarla significa assumere il volto di Cristo

"Il sacrificio di Noè" (1574), dipinto di Jacopo da Bassano

“Il sacrificio di Noè” (1574), dipinto di Jacopo da Bassano

In un articolo folgorante uscito qualche anno fa sulla rivista “Etudes”, il teologo francese Paul Valadier fece un’«apologia della vulnerabilità». Una categoria che egli giudica più forte e autenticamente umana di altre oggi in voga nel linguaggio comune, come la resilienza. Per lui la vulnerabilità significa essere capaci di ricevere delle ferite, nel corpo e nell’anima. E di farvi fronte non solo e non tanto resistendovi, ma con l’atteggiamento dei poveri di spirito, quindi con gioia. Accettare di essere vulnerabili è proprium del cristianesimo e significa essere ben lontani dall’atarassia dello stoicismo o dall’imperturbabilità del buddhismo, perché vuol dire farsi carico della vulnerabilità dell’altro. In questo senso si va ben oltre le categorie della tecnoscienza e persino dell’etica.
Solo la fede in un Dio vulnerabile che ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, perciò ancor più vulnerabile, può aiutarci a comprendere la condizione umana, superando la superba pseudo-autonomia dell’uomo moderno e postmoderno, ma anche l’immagine di un Dio altrettanto superbo, totalmente trascendente e lontano dall’uomo. D’altronde, è l’idea di un Dio che si fa compagno dell’uomo, che non è solitario e inaccessibile, che prevale nella teologia degli ultimi decenni. A formarla hanno contribuito pensatori di origine ebraica come Elie Wiesel e soprattutto Simone Weil ed Etty Hillesum. Essi lo chiamano in causa, lo interpellano, addirittura giungono a rielaborarne il volto parlando di «sofferenza di Dio»: mentre il male trionfa e dimostra il suo volto più terribile, Dio ha bisogno di aiuto. Scrive Etty nel suo famosissimo Diario: «Se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio».
Alla fragilità di Dio è dedicato un libro appena uscito da Laterza di Brunetto Salvarani, Teologia per tempi incerti(Pagine 200, euro 17,00), che a partire da uno studio approfondito della Bibbia delinea un percorso che giunge a porsi le domande più scomode su cosa significhi essere credenti oggi, in un tempo che sempre più si caratterizza per la sua caducità e friabilità. «I cristiani – dice l’autore – si scoprono partecipi di una società contraddistinta da una cultura di base indebolita, da una veemente frammentazione e da crisi di identità sociale. Lo sbriciolamento di una razionalità sistemica è evidente». Si tratta perciò di «abitare la fragilità», di capire e amare questa condizione, dato che «solo chi riconosce il proprio limite può costruire relazioni fraterne e solidali, nella Chiesa e nella società», come scrive papa Francesco

Brunetto Salvarani

Brunetto Salvarani

Salvarani, giornalista e teologo, da sempre protagonista del dialogo interreligioso, direttore della rivista “Qol” e conduttore della trasmissione radiofonica “Uomini e profeti”, indaga il tema della fragilità attraverso alcuni personaggi biblici, da Giona a Noè, da Giacobbe a Giobbe, per arrivare a mettere a fuoco gli aspetti di debolezza, e perciò di umanità, di Gesù. Che soffre la stanchezza, che si fa catturare dal sonno come nella traversata notturna coi discepoli sul lago di Tiberiade, che ha sete come quando chiede da bere alla samaritana, che ha bisogno di starsene da solo, che prova collera verso chi sfrutta i sentimenti religiosi del popolo come i cambiavalute e i venditori di colombe nel tempio di Gerusalemme, e che si adira verso chi si dimostra ipocrita come i farisei. Si potrebbe dire, annota Salvarani, che l’unico sentimento assente nell’esistenza di Gesù sia l’indifferenza, la mancanza di interesse verso l’altro, i poveri in primo luogo.
Gesù se la prende spesso anche con gli apostoli ed è invaso dalla tristezza e dall’angoscia. È pieno di tenerezza verso le donne e i bambini, cioè coloro che non erano certo ai primi posti nella considerazione della società del tempo. Ha insomma ragione il teologo francese Joseph Moingt: «Il dogma dell’incarnazione è stato costruito proclamando che non bisogna arrossire delle humanitates, delle passività, delle sofferenze, delle infermità di Cristo, di tutto ciò che egli ha di simile a noi fin nelle nostre deficienze».
Per non parlare delle debolezze degli apostoli, che non si presentano certo come eroi né come intellettuali e non eccellono per speciali virtù o capacità, anzi spesso nelle pagine dei Vangeli risalta la propensione alla superbia e al tradimento. I primi testimoni di Gesù vengono mandati come pecore in mezzo ai lupi. «Qui probabilmente – dice ancora Salvarani – risiede il senso di quella scelta sorprendente e umanamente insensata: gente simile non poteva certo contare sulle proprie forze, ma solo su quella di Dio. Perché la precarietà e la pochezza degli apostoli si riflette in quella della Chiesa». Proprio come scrive san Paolo nella prima Lettera ai Corinti: «Fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio».
Mentre fra i saggisti del nostro tempo c’è chi rielabora in infiniti modi la sentenza nicciana sulla «morte di Dio» e chi prendendo spunto dai fatti di cronaca parla di «rivincita di Dio», il tema della debolezza e della fragilità di Dio si impone con maggiore chiarezza e plausibilità. Lo hanno fatto, come si diceva sopra, autorevoli pensatori ebraici (si aggiungano Jonas e Lévinas a quelli citati) ma anche cristiani, come ad esempio il teologo tedesco Jürgen Moltmann, il saggista Sergio Quinzio e la poetessa francese Sylvie Germain. O come, passando al versante ecclesiale, Albert Rouet, teologo e vescovo emerito di Poitiers nonché autore qualche anno fa del best seller La chance di un cristianesimo fragile, ove si può leggere questa frase illuminante: «Vorrei una Chiesa che osa mostrare la sua fragilità. A volte la Chiesa dà l’impressione di non aver bisogno di nulla e che gli uomini non abbiano nulla da darle. Desidererei una Chiesa che si metta al livello dell’uomo senza nascondere che è fragile, che non sa tutto e che anch’essa si pone degli interrogativi».

da Avvenire