In dialogo con pazienza e prudenza In montagna si parla (poco), senza gridare o agitarsi scomposti. E soprattutto si procede insieme adeguando il passo al gruppo per non lasciare indietro nessuno

Sì, non c’è dubbio che in questi otto anni sia cambiato il dibattito all’interno della Chiesa.

Ma per non fermarci a questo breve lasso di tempo si può dire che non è ancora tornata la libertà e lo spirito del dopo Concilio, anche se le finestre (e le porte!) si stanno riaprendo. Non esiste più quel senso quasi di oppressione che era avanzato strisciante dalla seconda metà degli anni ’80: per dirla con Xeres e Campanini, quasi “mancasse il respiro”. Spesso disatteso quel Vaticano II che aveva allargato, grazie allo Spirito, il respiro della Chiesa e dei cristiani. Molti non credenti, che avevano accettato un dialogo con i cattolici, avevano finito per non riconoscere loro neppure una presenza nello spazio democratico.

Certo in quegli anni lo Spirito ha continuato a soffiare. Tanti non si sono mai rassegnati e, pure in un contesto difficile (talvolta “molto” difficile), non si sono arresi. Molti anche i laici che non hanno avuto timore di continuare a riunirsi, studiare (quanti i giovani, anche coppie, che si sono iscritti a corsi teologici in parallelo agli studi laici), parlare e discutere, nonostante tutto, in nome della libertà dei figli di Dio. Soprattutto dopo che il Convegno della Chiesa italiana a Loreto (1985) aveva di fatto sancito la marginalizzazione dei laici e l’esclusione del concetto di corresponsabilità.

Non è mai venuto meno il «fuoco sotto la cenere» che invocava un ritorno alla freschezza del Vangelo. Quando nel 2012 papa Ratzinger inaugurava l’Anno della fede una delle motivazioni era quella di «ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede», con l’aiuto dello Spirito. Forse sono stati troppi quelli che non hanno avvertito quel soffio per rifugiarsi – quasi sotto assedio – in una sterile nostalgia di un passato che non torna. E la voce era a senso unico.

Oggi il contesto è profondamente diverso: sembra molto attenuato il clima di autoreferenzialità complice l’introduzione di un linguaggio da iniziati, sempre più escludente, l'”ecclesialese” (è significativo che certi termini siano oggi del tutto scomparsi). Il contesto è più libero sì, ma dannatamente complesso. Anche per l’avvento dei social-media (dove tanti si nascondono nell’anonimato per far emergere rancori e conflitti irrisolti, prima di tutto personali). Anche perché molti non sono cresciuti nella libertà di parola, di dialogo, di critica e nella novità rischiano di scottarsi per attese troppo alte.

Occorrono pazienza e prudenza, le virtù di chi va in montagna: la grammatica della pazienza per impedire fughe in avanti (che rischiano di tagliare le gambe) e la prudenza che avanza con passo regolare e continuo, nonostante la fatica perché è solo così che si raggiunge la meta. Senza dimenticare che in montagna si parla (poco), senza gridare o agitarsi scomposti. E soprattutto si procede insieme adeguando il passo al gruppo per non lasciare indietro nessuno, aiutandosi l’un l’altro con un occhio speciale per i più piccoli o quanti sono in difficoltà.

vinonuovo

L’arte di restare accanto Non possiamo continuare a pensare il servizio di accompagnamento dei giovani come qualcosa che si può improvvisare

Il nostro cammino di avvicinamento al Sinodo sta giungendo al suo culmine – siamo al tema dell’accompagnamento, ben trattato dal Documento preparatorio al Sinodo (II; II.1; II.4; III.1; III.4), forse perché sintesi di una valida e consolidata esperienza ecclesiale che risente meno del variare delle ‘ere teologiche e magisteriali’.

Il quadro che emerge dall’ascolto praticato è sostanzialmente positivo. I ragazzi di questa generazione incontrano, presto o tardi, figure religiose e persone credenti che sanno accompagnarli nelle difficoltà e nei dolori, sostenerli nella fatica delle scelte, accoglierli e curarli nelle fragilità, soprattutto familiari (II) – sostanzialmente confortarli.

Questa modalità di vicinanza può risultare anche incomprensibile o difficilmente emulabile, ma è ciò che essi si attendono: “Se alcuni fedeli, infatti, cercano nella religione il rigore, la giustizia, l’equilibrio, io ho sempre cercato in essa l’amore, l’accoglienza e la ricerca, soprattutto perché sono stata spesso sopraffatta dalle domande che mi sono posta sulla religione” (Marta). Decisivo, però, è che si tratti non di qualcuno che “conclude di essere arrivato”, ma di qualcuno che per restare intero dentro il mondo “prova sempre a rinnovarsi” (Alessio).

In questo, i nostri giovani testimoniano di nuovo una certa diversità rispetto ai loro genitori, i quali rappresentano o hanno incontrato “una tradizione poco compresa e oserei dire poco creduta – quasi una superstizione”, con una grande “differenza fra la teoria e la pratica, tra il dire e il fare” (Giulio). Il lavoro di riforma cominciato cinquant’anni fa sta quindi cominciando a dare i suoi frutti.

D’altra parte, è anche vero che prima o poi i ragazzi incontrano anche figure religiose o persone credenti capaci di lasciarli a se stessi o addirittura abbandonarli in un momento di solitudine e delusione (II). Ma tali esperienze, poi, si concretizzano in una serie di situazioni che, più che provocare qualche contestazione ecclesiale, si limitano a lasciare l’amaro in bocca. Forse perché anche i giovani d’oggi sanno affrontare in modo più maturo di quanto immaginiamo le debolezze e gli errori ecclesiali: “ho già imparato a discernere chi si professa credente dal credo stesso” – chiarisce Giulio; mentre Michelangelo provocatoriamente asserisce che “se anche fosse accaduto, non mi sarebbe dispiaciuto scoprirli manchevoli – il bello dei ‘maestri’ è proprio questo!”.

Ciò sottolinea come vi sia un aspetto di solitudine doppiamente inquietante che emerge piano piano dai racconti. In senso positivo, con Alessio, quando ci troviamo di fronte a “una persona introversa che fa le cose per conto suo”, ma che riconosce di essersi allontanato da solo “perché dovevo ritrovare me stesso” – aspetto questo che richiede nell’accompagnatore la capacità di saper fare un passo indietro, di ‘mollare la presa’, evitando così ogni rischio di ‘proselitismo’ e di ‘dipendenza’ relazionale. In senso negativo, quando nell’esperienza di strada si constata che, tra il doversi “dimostrare all’altezza di grandi aspirazioni e modelli irrealistici” (suor Chiara) e “un periodo storico caratterizzato dalla fretta e dalla disattenzione” (suor Alessandra), “uno dei drammi che i giovani più spesso vivono è proprio quello di sentirsi soli” (suor Ornella), al punto da esprimere a parole o con gesti e posture: – siccome ci sentiamo soli, lasciateci da soli -.

Di conseguenza, “essergli accanto vuol dire far loro sentire che non sono soli, rompere in qualche modo questo cerchio di solitudine che, più che fisico, è mentale e ancora più spirituale. Rotto questo guscio, scalfita questa ‘corazza’, si scopre un mondo di sensibilità e fragilità insieme ad una infinita bellezza” (suor Ornella).

A tal proposito, però, si corre il rischio di entrare in una logica dell’accudimento, dato che mentre i giovani “a volte fanno delle proprie fragilità un punto di forza per restare un po’ bambini”, “i grandi stanno vicino ai piccoli per compagnia più che per accompagnamento – con sfumature più o meno marcate di competizione intergenerazionale” (Daniele). E’ chiaramente una logica dannosa in vista della costruzione o del mantenimento di ogni relazione matura ed equilibrata: “basta proprio poco per giocarsi la fiducia nella relazione con i ragazzi” (suor Ornella), dimenticandosi che invece “è importante contribuire a costruire la serenità personale in cui sviluppare una vita cristiana” (Letizia).

Come evitare allora che l’accompagnamento assuma “una sfumatura coercitiva” e riesca invece ad essere un modo per “stimolare, risvegliare le menti sopite [e] le coscienze” (Michelangelo)? Soprattutto quando sembrano essersi consolidati e radicalizzati i due approcci della presenza forte e chiara e della mediazione più dolce e meno direttiva che dovrebbero essere vissuti non in costante opposizione, ma in una dialettica complessa?

Innanzitutto, comprendendo definitivamente come “accanto al percorso tradizionale di vita ecclesiale sia necessario creare un rapporto personale, un percorso personalizzato”, soprattutto quando incontriamo “persone estranee alla religiosità o spaventate dal lessico religioso” (Giulio). In secondo luogo, rendendosi conto che approssimarsi all’altrui coscienza – quale luogo segreto e intimo (II.1) – solo con apertura, attenzione, delicatezza,o solo con parole autorevoli e forti per scuoterla, non è mai produttivo. Per non essere invasivi o minacciosi e per non mettere in ombra la verità, l’arte da acquisire è piuttosto quando e con chi usare l’una o le altre.

In tutti gli interpellati, infatti, emerge la necessità che questa relazione personale si muova tra due poli in tensione costante. Da un lato, soprattutto “a livello mediatico” (Giovanna) e di “vita sentimentale e sessuale” (Giulio), si chiede alla Chiesa di evitare “un atteggiamento troppo rigido e giudicante che allontana le persone, soprattutto in momenti della vita in cui sono particolarmente vulnerabili poiché in ricerca o in crisi” (Camilla, Francesco). Nella convinzione che in realtà “la coscienza viene scossa dall’amore, dalla passione” e che “l’unico modo per trasmettere amore è farlo proprio”, esserne contagiati e contagiarlo: “il populismo religioso mi irrita e lo trovo sterile, le persone non vanno sedotte e neanche convinte…” (Marta).

Dall’altro lato, soprattutto nel “rapporto uno-a-uno” (Giovanna) e in “alcuni argomenti della sfera pubblica” (Giulio), si chiede alla Chiesa di “offrire un nuovo punto di vista e di mettere in crisi” (Daniele) alcuni aspetti del mondo, di “‘provocare’ con le parole, senza temere di ferire la coscienza dell’altro” (suor Nadia) – d’altronde “le rivoluzioni non sono pranzi di gala e neanche i salti della fede” (Michelangelo). Dice bene Giovanna: “dalle mani di una persona amica io sono disponibile ad accettare piccole ‘invasioni’, feedback negativi ma edificanti, consigli saggi anche se difficili da digerire”. In definitiva, sembra che gli stessi giovani chiedano anche pane forte e buono per i loro denti, non solo e non più le ‘pappette’ da bambini (1Cor 3,1-3).

Diventa chiaro perché, in questo “campo minato” (suor Alessandra) del confronto e dello scontro con la diversità, sia necessario formare educatori “in grado di restare nel contraddittorio, per trasformarlo in un terreno fertile che porti energie nuove nella società e nella Chiesa” (Daniele), “stimolando le persone, se necessario, a risolvere laddove possibile – o almeno a portare alla coscienza – le proprie contraddizioni” (Mariagrazia). Ritorna dunque l’invito rivolto all’accompagnatore di essere empatico e flessibile, ossia di “mettersi in gioco, far vacillare le proprie certezze, essere saldo nei valori, ma non negli schemi” (Daniele), “abbassare muri di difesa, sciogliere pregiudizi, in poche parole disarmarsi” (suor Alessandra).

L’effetto di questo stile di accompagnamento consisterebbe, secondo il Documento preparatorio, nel permettere ai giovani di stare nel mondo ed esprimere se stessi con fiducia ed originalità (II). Avverte però Daniele che, affinché tale “punto di partenza imprescindibile” non risulti “carente di ‘un pezzo'”, “è necessario porsi un obiettivo verso cui andare, che deve essere chiaro e ragionevole, ma soprattutto calibrato su chi si ha di fronte”: “intercettare i suoi punti di forza ed aiutarlo a valorizzarli, per il benessere suo e della società”. In altri termini, è necessaria una direzione di marcia che sappia “cercare quella parte fertile che c’è in tutti i ragazzi e farla germogliare”(Marta): dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior cantava – e cantano ancora i giovani d’oggi – Fabrizio De André.

Ma allora non possiamo continuare a pensare il servizio di accompagnamento dei giovani come qualcosa che si può improvvisare, che può essere affidato a chiunque mostri disponibilità. I guasti di questo atteggiamento e le contro testimonianze sono ormai chiari ed evidenti – ancor più “quando queste figure hanno ruoli di responsabilità che possono ricoprire senza dover rendere conto a nessuno” (Daniele). E’ un ruolo che richiede competenze adeguate e che perciò ha bisogno di essere ricoperto da persone che abbiano svolto un cammino specifico di formazione, non solo teorica, ma anche personale, di elaborazione di sé e che vengano periodicamente verificate sul proprio operato. Perciò resta ancora valido il suggerimento – anche qui – rivolto alla Chiesa di decidersi ad investire risorse per promuovere e potenziare questo tipo di formazione.

vinonuovo.it

Il pane e il vino ci ricordano che, per costruire relazioni, dobbiamo essere anche noi – come Gesù – corpo che si spezza e sangue che si versa

 

L’ESEMPIO DI GESÙ

(avorio del primo quarto del XII secolo, Salerno, Museo Diocesano)

«Prendete, questo è il mio corpo… Questo è il mio sangue…» (Mc 14,12-16.22-26)

 

È una bella intuizione l’accostamento, sulla stessa tavoletta, di tre momenti: la moltiplicazione dei pani, l’ultima cena e la lavanda dei piedi. Con la scena centrale illuminata dalle altre due, a suggerire lo stile con cui andare verso i fratelli.

Resta impressa, del primo riquadro, la condivisione del pane quotidiano, distribuito a gruppi ordinati, con le figure via via più piccole: dove si capisce che, al di là dell’organizzazione, ciò che conta è l’impegno ad arrivare a ogni uomo, facendo in modo che nessuno si senta escluso dal dono o in subordine rispetto ad altri.

La stessa cura si percepisce nella scena della lavanda dei piedi, posta in basso: un servizio che ha valore solo se strettamente personale e che, come il precedente, si realizza chinandosi verso il fratello.

L’attenzione a ciascuno è ribadita nel racconto dell’istituzione dell’Eucaristia, quando in tre occasioni si accenna alla preparazione: della sala, della cena e della Pasqua. Per la quale è immaginabile che non si pensasse solo alle cose da fare.

E ancor oggi l’Eucaristia, se da una parte è memoriale di qualcosa che è successo, dall’altra è segno preparatorio, anticipatore di Qualcuno che verrà. Infatti, oltre che rimandare a un avvenimento passato – l’ultima cena -, ne fa fare esperienza diretta: quell’avvenimento, dunque, non è chiuso in un libro, come un fatto storico, ma è continuamente rifatto, risignificato e reso nuovo da chi vi partecipa, in ogni Messa celebrata sulla Terra.

Più volte il magistero della Chiesa ha ricordato come l’Eucaristia non sia un gesto simbolico, poiché nell’ostia e nel vino Gesù continua a essere presente nel tempo, per cui chi riceve l’Eucaristia riceve il Signore e il suo amore come li ricevettero gli apostoli nell’ultima cena.

Ma il dono del Signore ci deve impegnare – invece che a discutere con quale parte del corpo toccare l’ostia – a capire come, a nostra volta, possiamo essere corpo che si spezza e sangue che si versa per gli altri. Perché ciò che il Padre ha chiesto a Gesù, in ogni Eucaristia Gesù lo chiede a noi.

Alla diocesi di Roma, di recente, papa Francesco ha raccomandato che «le nostre comunità diventino capaci di generare un popolo – questo è importante, non dimenticatelo: Chiesa con popolo, non Chiesa senza popolo -, capaci cioè di offrire e generare relazioni nelle quali la nostra gente possa sentirsi conosciuta, riconosciuta, accolta, benvoluta, insomma: parte non anonima di un tutto. Un popolo in cui si sperimenta una qualità di rapporti che è già l’inizio di una Terra Promessa, di un’opera che il Signore sta facendo per noi e con noi» (14.5.2018).

vinonuovo

Disabilità, l’impegno dell’Unione italiana lotta alla distrofia muscolare

Papa Francesco e un malato

“Come associazione ci impegniamo ogni giorno perché le persone con malattie neuromuscolari e i loro familiari non si sentano soli ma accolti e supportati nelle loro necessità”. E’ quanto ha affermato Marco Rasconi (ascolta), presidente nazionale dell’Unione italiana lotta alla distrofia muscolare (Uildm) poco prima dell’incontro di Papa Francesco, nell’Aula Paolo VI, con oltre 1500 soci di questa associazione.

In Italia oltre 20 mila persone affette da distrofia muscolare

Le distrofie neuromuscolari sono patologie ereditarie di origine genetica. Sono caratterizzate dalla progressiva degenerazione e dall’indebolimento dei muscoli volontari. In Italia ne sono affette circa 20 mila le persone.  Attualmente, non esiste una cura per queste malattie che permetta di arrivare ad una guarigione, nonostante vi siano numerosi studi e sperimentazioni cliniche in corso.

Inclusione sociale tra le priorità

Gli obiettivi prioritari dell’Uildm sono: favorire l’inclusione sociale delle persone con disabilità e promuovere la ricerca scientifica e l’informazione sanitaria sulle distrofie muscolari progressive e sulle altre patologie neuromuscolari. Da quasi 60 anni questa associazione svolge un’importante funzione sociale e medico – riabilitativa. Tra i servizi offerti, attività di inclusione, formazione e sensibilizzazione. Ma anche assistenza riabilitativa domiciliare e visite specialistiche.

vaticannews

Giornata mondiale dei genitori: la pace nel mondo comincia in casa

Una famiglia

Il futuro dell’umanità dipende dal modo in cui madri e padri svolgono la loro missione educatrice. E’ quanto ha affermato il nunzio apostolico mons. Bernardito Auza, osservatore permanente della Santa Sede prezzo le Nazioni Unite, intervenendo ieri a New York ad un evento in occasione della Giornata mondiale dei genitori e incentrato sul tema: “L’impatto della buona genitorialità su bambini e società”.

La famiglia è centrale per promuovere la pace

La buona genitorialità di una madre e di un padre che si rispettano a vicenda – ha detto mons. Auza – è fondamentale per la formazione di bambini con cuori pacifici. E’ essenziale – ha aggiunto – per le più grandi speranze che la comunità internazionale si impegna a realizzare. Riferendosi al murale di Per Krohg, visibile nella sede delle Nazioni Unite, il nunzio ha ricordato il messaggio di questa opera: la famiglia – ha sottolienato – è determinante per la costruzione della pace.

La buona genitorialità

La buona genitorialità – ha spiegato inoltre mons. Auza – non è solo essenziale per la pace. E’ cruciale anche per lo sviluppo, per la difesa dei diritti umani e per il mantenimento degli accordi e dei trattati internazionali. La famiglia è anche la base per l’istruzione, la salute, l’uguaglianza. Il rispetto dei diritti umani fondati sulla dignità umana – ha osservato il presule – deriva in particolare dal modo in cui le persone imparano a rispettare i loro familiari. E’ a casa – ha spiegato mons. Auza – che le persone imparano a mantenere gli impegni reciproci.

Futuro del mondo legato alle famiglie

La pace nel mondo – ha affermato inoltre il presule – comincia con la pace in casa. Lo sviluppo sostenibile delle società è legato al lavoro di madri e padri. La scuola dell’amore familiare è il pilastro per la costruzione di una società in cui sia assicurato il rispetto della dignità e dei diritti umani. Il futuro del mondo – ha concluso mons. Auza – è legato alle famiglie: per questo, i genitori devono essere preparati, sostenuti e incoraggiati nello svolgimento del loro indispensabile ruolo.

vaticannews

Amazon. Circa 70 posti nel nuovo deposito di Roma

Circa 70 posti nel nuovo deposito di Roma

Amazon ha annunciato l’apertura di un nuovo deposito di smistamento a Roma, zona Magliana. La nuova struttura consentirà di incrementare la capacità e la flessibilità della sua logistica in Italia, garantendo consegne più veloci ai clienti e un servizio migliore per le aziende che vendono tramite Amazon e che beneficiano della sua rete di distribuzione. Il nuovo deposito di smistamento di oltre 8mila metri quadrati creerà circa 70 posti di lavoro a tempo indeterminato nei prossimi anni, consentendo ai corrieri locali e regionali di consegnare gli ordini dei clienti più velocemente.

«Il deposito di Roma rafforzerà la nostra rete logistica, permettendoci di rispettare le promesse di consegna ai clienti e supportare tutte le aziende che vendono i loro prodotti su Amazon – ha dichiarato Gabriele Sigismondi, responsabile di Amazon Logistics in Italia -. Con questo nuovo deposito, inoltre, – spiega – le aziende di consegna locali indipendenti potranno far crescere la loro attività, in quanto Amazon fornirà loro la tecnologia più avanzata per effettuare le consegne».

«Amazon sceglie Roma, una buona notizia per la capitale. Un nuovo stabilimento che significa nuovi posti di lavoro, in linea con il principale obiettivo di questo assessorato», dichiara l’assessore allo Sviluppo economico, Turismo e Lavoro di Roma Capitale, Carlo Cafarotti.

Amazon ha investito oltre 800 milioni di euro e ha creato più di 3.500 nuovi posti di lavoro in Italia dal suo arrivo nel Paese nel 2010. Oltre a questi investimenti nello sviluppo della propria rete logistica in Italia, nel 2012 Amazon ha aperto il proprio centro di assistenza clienti a Cagliari e gli uffici corporate a Milano.

Nel novembre del 2017 Amazon ha spostato i propri uffici corporate in un edificio di 17.500 metri quadri nel quartiere emergente di Porta Nuova. La nuova sede corporate ospita gli attuali 400 dipendenti e fornirà all’azienda spazio sufficiente per accogliere oltre 1.100 persone. Amazon ha inoltre annunciato l’apertura a Torino di un centro di sviluppo per la ricerca sul riconoscimento vocale e la comprensione del linguaggio naturale che supporterà la tecnologia già utilizzata per l’assistente vocale Alexa, al momento disponibile solo in lingua inglese per servizi e prodotti come Amazon Echo, Echo Dot, Amazon Fire TV e Amazon Tap.

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