Filosofia. Jankélévitch, la noia rivela il senso della vita

Il filosofo Vladimir Jankélévitch

Il filosofo Vladimir Jankélévitch

Quante volte abbiamo sentito ripetere che la filosofia è quanto di più lontano possa esserci dalla vita. Dalla nostra quotidiana esistenza. Tante, tantissime volte. Ed è così. Basti pensare alla tendenza autoreferenziale che ha assunto gran parte della filosofia contemporanea. Soprattutto, ma non solo, quella di derivazione analitica. Che rivolgendo lo sguardo su se stessa, ha preso congedo dalla vita. Dimenticandosi di essa. Ma anche i grandi sistemi filosofici della modernità, non solo quello hegeliano, non hanno fatto che pensare la vita all’interno di astrazioni logico-concettuali e metafisiche che l’hanno inaridita, la vita. Riducendola al silenzio. Se poi pensiamo allo stato odierno della filosofia negli insegnamenti liceali e universitari – ridotta a una manualistica, ripetitiva e noiosa ‘disciplina’ – non possiamo dare torto a chi sostiene che davvero ha fatto esodo dalla vita. E tuttavia, non è stato sempre così. Anzi. Non è forse sulla vita – biologica, sociale, etica, politica, estetica, religiosa – che si interrogano i primi pensatori della Grecia antica? E tutti gli altri o gran parte di essi, che si susseguiranno sino alle soglie della modernità? È soprattutto nell’età contemporanea, invece, che si opera la frattura tra vita e filosofia. Una frattura che è necessario ricomporre. Risanare. Dentro lo stesso pensiero contemporaneo.

È ciò che ha provato a fare Vladimir Jankélèvitch (Bourges 1903 – Parigi 1985 ). Che sulla scorta, soprattutto, della lezione di Simmel, Bergson e dell’intera tradizione filosofica occidentale, ha cercato nelle sue opere di riacciuffare in qualche modo la vita. In tutte le sue più impensate increspature. In tutte le sue più quotidiane, familiari, consuete esperienze. Come quella dell’avventura. O quella della noia. O l’esperienza della serietà. Sulle quali si è soffermato con questo bel libro uscito in Francia nel 1963 e in prima edizione italiana da Marietti nel 1991, ora riproposto da Einaudi L’avventura, la noia, la serietà con l’introduzione di Enrica Lisciani Petrini. Avventura, noia, serietà: si tratta di quotidiane esperienze, che noi tutti facciamo. O abbiamo fatto. Oppure faremo. Sono delle “forme” nelle quali la nostra vita, in alcuni suoi provvisori, transitori passaggi, si determina. Perciò le chiamiamo “forme di vita”. Ma come è possibile, si chiede Jankélévitch, che la nostra vita, animata da un costitutivo dinamismo espansivo, si lasci irretire dentro ‘forme’ che tendono invece a devitalizzarla? Insomma, a negarla? È questa la ‘tragedia’ della nostra vita, sottolinea Enrica Lisciani-Petrini nell’introduzione.

La vita non può fare a meno delle “forme”. Giacché sono le “forme” che le conferiscono espressione. Ma il prezzo che la vita deve pagare per poter essere ‘espressiva’ è quello di rinunciare alla sua potenza espansiva. Ma questo non intende in alcun modo farlo. Ecco perché la nostra vita tende incessantemente e contraddittoriamente a negare quelle stesse ‘forme’ di cui non può fare a meno, per potersi esprimere. E questa negazione delle ‘forme’ la sperimentiamo nell’avventura. Che non si lascia mai predeterminare: che avventura sarebbe, se conoscessimo prima l’esito della sua esperienza? E nella serietà, ci dice Jankélévitch, non facciamo forse esperienza di una ‘forma di vita’ che la potenza espansiva della vita tende a negare? «Tutto è serio osserva Jankélévitch – e di conseguenza nulla lo è. Le nostre agende dell’anno scorso, con i loro defunti appuntamenti e tutte le crucialissime incombenze che ci agitavano, rendono una malinconica testimonianza di tale insignificanza generale». E coloro i quali hanno trascorso annoiandosi tutta la vita a sbadigliare, non saranno forse i primi a chiedere di poter avere un giorno ancora di vita, quando la morte busserà alla loro porta? Ci annoiamo, scrive Jankélévitch, «soprattutto nell’età in cui siamo convinti di avere in mano tutta l’immensità dell’avvenire, nell’età in cui immaginiamo che la vita sia senza fine… No, la vita non è lunga, la vita è breve come un sogno e, a conti fatti, ancor più breve che noiosa; infatti la morte è in definitiva ben più importante della noia».

avvenire

Raduan, a 7 anni dalla Siria a Trento per curare l’osteogenesi imperfetta

Bambini siriani rifugiati (Ansa)

Bambini siriani rifugiati (Ansa)

Il piccolo Raduan, bimbo siriano di 7 anni, sorride e fa ciao con la manina, l’unica parte del corpo che può muovere. Da gennaio è in Italia con la famiglia grazie ai corridoi umanitari. Quattro giorni fa hanno ottenuto lo status di rifugiati. Un’iniziativa che ha strappato la giovane famiglia al dramma di uno dei campi profughi a Tripoli in Libano, e il bimbo a un destino segnato. Un corridoio molto particolare, il primo sostenuto anche economicamente da un’amministrazione locale, la Provincia autonoma di Trento che con una delibera di giunta, dopo una mozione del consiglio, ha deciso di finanziare i corridoi: l’80% dei 100mila euro necessari, il resto dal Centro Astalli che con la cooperativa Villa Sant’Ignazio e la Comunità di Sant’Egidio sta gestendo accoglienza e integrazione.

Iniziativa nell’ambito del progetto della stessa Comunità di Sant’Egidio, insieme alla Tavola Valdese e alla Federazione delle Chiese evangeliche, già affiancato dai corridoi umanitari promossi della Cei.

Trent’anni il papà, 27 la mamma, cinque figli da 2 a 12 anni. Vivevano a Homs, città a metà strada tra Damasco e Aleppo, in gran parte distrutta ma ancora al centro delle cronache per alcuni attacchi missilistici ad una base governativa. «Anche la loro casa è stata distrutta – ci racconta Stefano Canestrini, coordinatore del Centro Astalli di Trento –. Così un anno e due mesi fa sono fuggiti in Libano. Erano in 15».

E a Tripoli è cominciata «la vita da invisibili», come la definisce il presidente del Centro Astalli, Stefano Graiff. Fino a gennaio hanno vissuto in un palazzo non terminato, senza porte e finestre, e coi pavimenti in cemento grezzo, dicono Giuseppe e Sebastiano, i due operatori del Centro Astalli che sono andati a prenderli. Una situazione terribile, soprattutto per il piccolo Raduan. La malattia, infatti, ha fatto del suo corpo un fragile fuscello.Osteogenesi imperfetta o ‘ossa di cristallo’, viene chiamata. Le ossa si fratturano in continuazione e il corpo non cresce, fino all’adolescenza, ma ormai è tardi.

Così nella fuga in Libano, è stato trasportato con una coperta trasformata in barella. Poi per più di un anno la vita in un unico stanzone. Per dormire solo dei materassini. «Condizioni igieniche precarie. Costretti a vivere chiusi lì dentro. Una prigione senza catene», racconta Giuseppe. I bambini in tutto quel tempo non hanno mai visto altro che quel palazzo. L’unica a uscire era la nonna. «Era la più forte, dispensava sorrisi a tutti. La separazione è stata straziante», aggiunge Giuseppe.

Dopo cinque giorni nei quali i due operatori trentini hanno vissuto assieme alla famiglia e comunicando solo grazie ai traduttori dei cellulari, la partenza in un clima di gioia. «Per la prima volta l’applauso c’è stato al decollo e non all’atterraggio. Partito dalle manine dei bambini». Una prima sosta a Roma dove Raduan è stato ricoverato al Bambino Gesù per accertare lo stato della sua malattia. «Malgrado l’immobilità sorride sempre, è vivacissimo e ha un’intelligenza superiore. Gli piace la musica e sta imparando a suonare la pianola», ci racconta Canestrini.

Attualmente la famiglia è ospitata a Villa Sant’Ignazio dove vivono altri migranti, ma sarà presto trasferita in un appartamento preso in affitto. Raduan è seguito dal servizio pediatria di Trento e avrà l’assistenza scolastica a domicilio, mentre i fratelli hanno già cominciato la scuola. «Tutta la famiglia ha avuto uno screeningsanitario. I bambini non avevano mai visto un medico né erano stati vaccinati».

Il papà segue un corso di italiano per poi essere inserito in percorsi lavorativi. «Ha tanta voglia di imparare». «La barriera principale è stata quella linguistica – spiega Eleonora, che si occupa dell’inserimento –. Ma sono molto intuitivi. Fondamentale è stata la mediazione culturale per cogliere la complessità e porci nel modo più opportuno».

L’assessore provinciale alla sanità, Luca Zeni ricorda come il Trentino accolga 1.603 richiedenti asilo, mille dei quali in appartamenti. «C’è un’integrazione positiva che fa cadere i pregiudizi. La campagna elettorale ha dimostrato come una strategia di paura permette di capitalizzare. Ma questo avvelena il clima mentre è possibile una gestione tranquilla». Un evidente riferimento al recente danneggiamento nel comune di San Lorenzo del B&B che doveva ospitare sette rifugiati.

Coi corridoi umanitari sono già arrivati in Trentino 54 persone di 10 famiglie, come spiega il consigliere provinciale Mattia Civico, esponente della Comunità di Sant’Egidio che ricorda la frase di uno di loro: «Qualcuno è stato con noi, qualcuno ci ha aspettato, qualcuno ci ha preparato un posto».

Avvenire

Il Vangelo Domenica 22 Aprile. I lupi sono più numerosi degli agnelli, ma non più forti

IV Domenica di Pasqua
Anno B

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. […]

Io sono il Pastore buono è il titolo più disarmato e disarmante che Gesù abbia dato a se stesso. Eppure questa immagine, così amata e rassicurante, non è solo consolatoria, non ha nulla di romantico: Gesù è il pastore autentico, il vero, forte e combattivo, che non fugge a differenza dei mercenari, che ha il coraggio per lottare e difendere dai lupi il suo gregge.
Io sono il Pastore bello dice letteralmente il testo evangelico, e noi capiamo che la bellezza del pastore non sta nel suo aspetto esteriore, ma che il suo fascino e la sua forza di attrazione vengono dal suo coraggio e dalla sua generosità.
La bellezza sta in un gesto ribadito cinque volte oggi nel Vangelo: io offro! Io non domando, io dono. Io non pretendo, io regalo. Ma non per avere in cambio qualcosa, non per un mio vantaggio. Bello è ogni atto d’amore.
Io offro la vita è molto di più che il semplice prendersi cura del gregge.
Siamo davanti al filo d’oro che lega insieme tutta intera l’opera di Dio, il lavoro di Dio è da sempre e per sempre offrire vita. E non so immaginare per noi avventura migliore: Gesù non è venuto a portare un sistema di pensiero o di regole, ma a portare più vita (Gv 10,10); a offrire incremento, accrescimento, fioritura della vita in tutte le sue forme.
Cerchiamo di capire di più. Con le parole Io offro la vita Gesù non intende il suo morire, quel venerdì, per tutti. Lui continuamente, incessantemente dona vita; è l’attività propria e perenne di un Dio inteso al modo delle madri, inteso al modo della vite che dà linfa al tralci, della sorgente che dà acqua viva.
Pietro definiva Gesù «l’autore della vita» (At 3,15): inventore, artigiano, costruttore, datore di vita. Lo ripete la Chiesa, nella terza preghiera eucaristica: tu che fai vivere e santifichi l’universo.

Linfa divina che ci fa vivere, che respira in ogni nostro respiro, nostro pane che ci fa quotidianamente dipendenti dal cielo.
Io offro la vita significa: vi consegno il mio modo di amare e di lottare, perché solo così potrete battere coloro che amano la morte, i lupi di oggi.
Gesù contrappone la figura del pastore vero a quella del mercenario, che vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge perché non gli importa delle pecore. Invece al pastore buono ogni pecora importa e ogni agnello, a Dio le creature stanno a cuore. Tutte. Ed è come se a ciascuno di noi ripetesse: tu sei importante per me. E io mi prenderò cura della tua felicità.
Ci sono i lupi, sì, ma non vinceranno. Forse sono più numerosi degli agnelli, ma non sono più forti. Perché gli agnelli vengono, ma non da soli, portano un pezzetto di Dio in sé, sono forti della sua forza, vivi della sua vita.
(Letture: Atti 4,8-12; Salmo 117; 1 Giovanni 3,1-2; Giovanni 10,11-18)

di Ermes Ronchi

Avvenire

Il bullismo in classe. Fallimenti e responsabilità: qualcosa che serve a questa scuola

Tutti vittime. Tutti colpevoli. Dipende da chi è a puntare il dito. Studenti, insegnanti e genitori sono diventati irriducibili nemici: manipoli di bulli che si fronteggiano armati di parole pesanti e che qualche volta – sempre meno raramente – dalle parole passano ai fatti.

I bollettini di guerra sono affidati alle cronache: maestre che maltrattano i bambini di cui dovrebbero avere cura,adolescenti che umiliano i docenti invece di prenderli a esempio, genitori che schiaffeggiano chi osa criticarne i figli. Un fallimento conclamato. Anzi, tanti fallimenti conclamati: della relazione, dell’educazione, del principio di responsabilità.

Falliscono diversi insegnanti: schiacciati da un sistema che mette al centro la burocrazia, raramente valorizzati e sistematicamente frustrati, finiscono – e come dar loro torto? – col lasciare che si spenga la passione per l’insegnamento che certo li aveva spinti a varcare la soglia di una classe. Rinunciano all’autorevolezza, esercitano l’autorità – quando ci riescono – che non li rende amati, tantomeno ammirati.

Falliscono certi genitori: incapaci di mantenere la giusta distanza, abdicano al ruolo di padri e madri calandosi in quello del compagno di scorribande, dell’amicone, del complice. Il pargolo ha sempre ragione, specie quando non ce l’ha. Il loro obiettivo – e neppure a loro si può dare torto – è la soddisfazione dei figli, e sono disposti a tutto per garantirla: fanno finta di non sapere che la soddisfazione più dolce è quella che ti conquisti, non quella che ti regalano.

Un fotogramma del video in cui uno studente bullizza il professore

Un fotogramma del video in cui uno studente bullizza il professore

Falliscono non pochi ragazzi: convinti che si possa crescere da soli, sacrificano alla comodità di un presente senza impegno un futuro che non si ottiene senza fatica. Occasioni che non tornano. Ma tutti sono vittime. Tutti sono colpevoli. Il professore frustrato che non ha più voglia di insegnare, il genitore dimentico di sé e del suo ruolo educativo, il ragazzo prepotente sicuro dell’impunità potrebbero continuare a crogiolarsi ciascuno nel proprio brodo di coltura se facessero male solo a se stessi. Invece, i danni – voluti o collaterali – non si contano.

Danni che nessuno risarcirà: per quanto un giudice potrebbe anche stabilire un indennizzo, l’insegnante sfregiata riuscirà più a guardare i suoi studenti con gli stessi occhi? La bambina presa a schiaffoni dalla maestra sarà ancor capace di fidarsi degli adulti? Sono responsabilità massicce a pesare su quanti si fronteggiano in queste trincee della scuola.

Responsabilità, concetto cardine della filosofia morale: la possibilità di prevedere le conseguenze del proprio comportamento e di correggere quest’ultimo sulla base di tale previsione. Siamo liberi di scegliere quale comportamento tenere, siamo liberi di agire per il bene o per il male. La seconda opzione non è – non deve essere – senza contraccolpi: questo tutti dovrebbero avere ben presente.

Gli adulti sforzarsi di insegnarlo ai ragazzi. Con le parole e con l’esempio: se un adolescente mette online il video di una compagna svestita, non dovrà passarla liscia e, se ancora non lo sa, deve imparare che non si può fare. Per il suo stesso bene. Non servono punizioni esemplari, anzi: le pene umilianti, ormai e noto e certificato, sono controproducenti. Serve un lavoro di recupero che sappia diventare valorizzazione, una spinta verso il meglio.

E la punizione andrebbe condivisa dagli adulti – siano essi i genitori o gli insegnanti – colpevoli di non aver esercitato il loro ruolo educativo.

Perché crescere figli maleducati è una colpa: lo dimostrano svariate sentenze della Corte di Cassazione che hanno condannato mamme e papà a pagare i danni causati a cose o persone dai comportamenti dei figli. Agli insegnanti che non hanno saputo insegnare non serve infliggere alcunché: la loro pena la scontano tutti i giorni, entrando in classe e incontrando gli sguardi vuoti dei ragazzi, che non li vedono nemmeno.

PS. Alla scuola serve anche qualcosa che non dipende solo dai suoi protagonisti: una politica pienamente consapevole del suo valore e un’informazione che sappia vederne e raccontarne anche i meriti e le buone pratiche. Noi ci proviamo.

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