Quale accompagnamento sperimenta un giovane oggi nella Chiesa da parte di chi ha qualche anno più di lui? La testimonianza di Alessio

Il nostro cammino di avvicinamento al Sinodo sta raggiungendo il suo culmine – non a caso nel tempo liturgico dello Spirito del Risorto. Nelle prossime settimane affronteremo il tema dell’accompagnamento, riuscito o mancato che sia, da parte degli adulti nei confronti dei giovani.

Tra questi, indubbiamente, vi è Alessio. Studente universitario al secondo anno di Ingegneria informatica al Politecnico di Milano, vive a San Maurizio al Lambro, frazione di Cologno Monzese. A lui, che ringraziamo per la disponibilità, abbiamo rivolto alcune domande.

Che rapporto hai con la fede?

Non credo di saper rispondere a questa domanda. Ognuno ha la propria percezione della fede, pure differente se associata ai diversi contesti in cui ha senso parlarne. Sono nato in una famiglia cristiana e i miei genitori mi hanno abituato ad andare a messa la domenica; crescendo invece è svanita la mia convinzione nell’esistenza di un dio. Ho sempre frequentato l’oratorio e sono stato responsabile dell’animazione per qualche anno,  mi sono occupato di tanti aspetti legati anche alla vita della parrocchia; in questi anni ho potuto constatare personalmente quelle che sono le conseguenze del vivere all’interno di una comunità cristiana, positive e negative. Ritengo di poter affermare che, più che di Fede nei confronti di Dio, nel mio caso si possa parlare di Fede nello stile di vita indotto dalla religione nelle persone della mia comunità. Per dirla breve, ho fede nel fatto che sia uno stile di vita fertile, positivo e con tanti benefici da considerare.

Ci sono figure religiose che ritieni importanti per la tua vita? Se sì, Perché?

Di norma, ritengo importanti tutte quelle cose che mi interessano oppure che possono aiutarmi a crescere. Non è una legge scritta ma pare che mediamente la figura del prete abbia più tempo da dedicare alla meditazione, alla lettura e alle persone; possiede inoltre una formazione accademica non indifferente che gli fornisce gli strumenti per trasformare il tempo dedicato in esperienza utile e lezioni di vita. Questo fatto ha due principali risvolti: qualcuno ad un certo punto conclude di essere arrivato al termine del proprio viaggio e si limita ad essere la persona che è diventata; qualcun altro invece prova sempre a rinnovarsi. Sono queste ultime le figure che, se pure inconsapevolmente stimolano la mia curiosità e quindi appaiono importanti ai miei occhi.

Puoi parlarci di un incontro con figure religiose o persone credenti che ti hanno accompagnato nelle difficoltà, sostenuto nelle scelte, accolto e curato nelle fragilità?

Qualche tempo fa avevo litigato con i miei genitori. Ricoprivo già (ancora) il ruolo di capo-animatore del mio oratorio in collaborazione con un seminarista, Giacomo, e con le varie figure legate al luogo. Il responsabile laico dell’oratorio, più grande di me come un padre col figlio ma che già ritenevo amico, mi accolse nella sua casa in oratorio per qualche notte permettendomi di risolvere la questione con i miei.

Puoi parlarci di un incontro con figure religiose o persone credenti che ti hanno lasciato a te stesso o addirittura abbandonato in un momento di solitudine, disillusione, emarginazione, mancanza di senso, grave errore?

Sono una persona introversa che fa le cose per conto suo. Se mi sono trovato solo nella vita è perché mi sono allontanato, se mi sono emarginato è perché dovevo ritrovare me stesso. I momenti di mancanza di senso mi hanno aiutato quando pensare non portava a niente di buono. Tutto questo per dire che in queste situazioni non c’è stato modo di sentirmi abbandonato, poiché ero io il primo ad allontanarmi. Probabilmente questo si traduce in una mancanza da parte dei miei genitori, ma potrebbe anche leggersi come la chiave della mia crescita.

vinonuovo.it

È la voglia di entrare in relazione che rende capaci di ricevere e di donarsi

COSTANTE UOMO

(Fausto Melotti, 1936, Milano, Fondazione Fausto Melotti)

«Toccatemi e guardate: un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Lc 24,35-48

Chissà che lo scultore, prima di scavare quella mano, guardando il suo uomo ridotto all’essenziale, non abbia pensato: «Quanto somiglia a un manichino!». E magari si sia posto la domanda: «Riuscirà un simbolo, semplificato al massimo, a dire qualcosa di sé, del proprio significato?».

Chissà che non sia stato quello il momento in cui l’artista ha intuito il limite della metafisica: il non tenere in nessun conto la storia. E si sia deciso a imprimere sulla scultura una sorta di marchiatura a fuoco, non a forma di ferita ma di gesto d’amore ricevuto. Se l’uomo – si sarà detto Melotti – resta capace di conservare, oltre alla vita avuta in dono, il calore di un incontro, può perdere la freddezza del manichino ed è persino in grado di accendere al bene qualcuno.

È ovvio come tutto ciò sia solo nei nostri sogni. Però potrebbe essere verosimile, in un artista che nei primi anni ’30 aveva realizzato non pochi episodi evangelici: in particolare una Cena in Emmaus e un’originalissima Pietà, in cui la Vergine – anziché deporre il corpo morto del figlio – sembra volerlo innalzare, prefigurandolo risorto.

Con questo corpo – e col nostro corpo – abbiamo a che fare oggi. Invece di confinarli nelle immagini, consideriamo come i corpi possano essere messi a disposizione. In vista di azioni da compiere per gli altri e assieme agli altri. A Emmaus, il corpo del Signore ha saputo farsi compagno di strada; ha spiegato con sapienza le Scritture, aprendo gli occhi agli sfiduciati; ha benedetto e condiviso il pane. E, anche dopo Emmaus, non smette di spezzarsi e di donarsi, continuando a insegnare e a dire che l’amore è più forte della morte.

Ricordare di avere una carezza tatuata sul corpo, vuol dire, ad esempio, lasciarci interpellare da chi – come Gesù – ci chiede qualcosa da mangiare…

vinonuovo.it

«Torneranno, prof?» La Pasqua, la vita e la morte. E «una canzone sulla speranza assoluta» cantata dai Negramaro

 

Pasqua è da sempre tempo di vita, di battesimi: due, solo quest’anno. Lara e Tommaso. La primogenita di mia cognata, il quarto figlio di mia sorella. Sorrento e Roma. Da chi andare? Privi del dono d’ubiquità, la scelta è caduta sulla primogenita.

Non lo sapevamo, ma in realtà questo momento di gioia si sarebbe rivelato come l’occasione per salutare un’ultima volta Carmela, la mitica nonna di mia moglie. A ricordarci, nel caso ve ne fosse bisogno, la repentinità del passaggio dalla vita alla morte – e viceversa.

L’aggravarsi improvviso di una condizione già dolorosa, la (saggia) decisione di non andare in ospedale, l’arrivo dei cari intorno al letto, l’attesa dell’unzione degli infermi e di quell’ultima eucaristia mangiata la quale è serenamente spirata.

Dopo un battesimo nel sabato di Pasqua, dunque, un funerale in quello successivo – laddove nonna Carmela è stata ritratta in un modo straordinariamente sentito dal parroco don Franco che ben la conosceva.

Donna dal carattere forte – a tratti duro – che però si scioglieva spesso in dolci sorrisi e sagaci battute. Litigammo – se così si può dire – una volta soltanto, a causa della fetta centrale di una buonissima torta al limone che una sera avevo nascosto nel forno per poterla mangiare a colazione, ma che lei trafugò – divorandosela tutta – di notte. Non potrò mai dimenticare il sorrisetto dietro cui negava assolutamente di essere stata lei a prenderla. Ma la sua golosità era la mia. E la compresi…

Sempre legato al mangiare, d’altronde, fu il motivo che spinse la nonna, donna dal giudizio morale netto e dalla religiosità devotissima, a cambiare la prima opinione su Papa Francesco: “Sergio, lo sai che questo nuovo Papa mi augura sempre buon appetito per il pranzo della Domenica? Credo che lo ascolterò meglio anche sul resto…”.

Questo aneddoto, arricchito da altre sue considerazioni sul colore della pelle o della fede delle badanti che nell’ultimo periodo si susseguivano nell’aiutarla, finì diritto in una lezione del primo anno di liceo sul rapporto tra saluto, salute e salvezza. Lasciando il segno nei ragazzi. Che alla notizia della sua morte – mi è sembrato giusto condividerla! – si sono sinceramente commossi. E hanno spalancato le emozioni dei ricordi sui loro nonni, presenti o ormai assenti.

Fin quando è giunta la fatidica domanda: “Torneranno, prof.?”. “Chi? – ho risposto. “I nostri nonni, gli altri morti… O almeno i bei momenti vissuti con loro…”. Negli anni ho imparato che a queste domande si risponde con un fermo ma delicato sì, incanalando poi il turbinio di emozioni susseguenti in una bella pagina letteraria, oppure, più semplicemente, in una canzone – come è avvenuto questa volta grazie ai Negramaro.

 

Clicca qui per vedere il video

“Una canzone sulla speranza assoluta, vista e cantata con più consapevolezza” – rivela il cantante Giuliano, perché “abbiamo immaginato uno scenario post apocalittico e davanti a questo scenario così nero, così grigio e così pieno di niente abbiamo immaginato che dalle montagne potesse tornare tutta la bellezza nascosta”.

Dunque , nonostante il male (Ricoeur), “torneranno i vecchi tempi / con le loro camicie fiammanti” – inizialmente irriconoscibili (Lc 24,15-16.36-37) – e “sfideranno le correnti” della nostra tristezza e disperazione (Lc 24,17-21.38), affinché possiamo “perdere il nome dei giorni / spesi male per contare / solo quelli finiti bene” (Lc 24,25-26.44.46), e invece “pensare / a nient’altro se non al mare” (Lc 24,33-35).

D’altronde già il precedente album era nato dal nero più nero che è la morte” e, nello specifico – confessa Giuliano – dalla “morte di mio padre”. Per poi prendere forma e proporsi come un disco “pieno di vita”, con canzoni caratterizzate da “una profondità tale che alla fine sono paradossalmente diventate leggere”, proprio perché “dopo tutta la sofferenza, un giorno mi sono svegliato e ho capito che la morte è una parte della vita e quindi bisogna vivere e non sopravvivere, nonostante tutto”.

Qui, però, c’è qualcosa di più. Qui, appunto, c’è quasi la certezza (di fede?) che “tutte le genti / che non hanno voluto parlare / scenderanno giù dai monti” ed allora, come si fa da adulti maturi con i racconti dei nonni e delle persone malate o con le spiegazioni dello stesso Gesù (Lc 24,27.32.45), “staremo a sentire / quelle storie da cortile / che facevano annoiare” – nel pieno delle illusioni giovanili – “ma che adesso sono aria / buona pure da mangiare” (Lc 24,30.41-43).

Addirittura, in una sorta di apocalisse-rivelazione (ancora laica?) del senso della sofferenza subita dal Potere, “torneranno gli innocenti / tutti pieni di compassione / per gli errori dei potenti / fatti senza esitazione / senza lividi sui volti, con un taglio sopra al cuore / prendi un ago e siamo pronti / siamo pronti a ricucire” – siamo pronti a perdonare (LC 24,47).

Infine – e qui si lacrima – “tornerai anche tu in mezzo gli altri / e mi sentirò impazzire”, “tornerai e ti avrò davanti spero solo di non svenire”. E’ l’amore per questa assenza non più tale che spinge il cantante a chiederle di “non voltarsi / che non voglio più svanire / nel ricordo dei miei giorni” e a implorarla “resta fino all’imbrunire” (Lc 24,29).

In realtà ciò non avverrà. Forse, non deve avvenire. Chi torna lo fa per subito sparire (Lc 24,31). Perché chi torna, sin dal mito della caverna di Platone, torna solo per ‘metterci in moto’, per farci partire e viaggiare lontano (Lc 24,28.48-49): “torneranno anche gli uccelli, ci diranno come volare, per raggiungere orizzonti, più lontani al di la del mare”.

Sempre che, come è evocato nel nucleo del video e della canzone, si vogliano capire queste cose da bambini e stringersi al corpo dell’altro “come se non c’è più niente”: affidarsi (Lc 24,39-40) …

È beato Lucien Botovasoa, maestro e padre, martire in Madagascar

SARY BOTOVASOA LUCIEN 729.jpg

“Dal desiderio di essere amato dalle persone, salvaci Gesù! Dal desiderio di essere lodato, liberaci, Gesù! Dal desiderio di essere onorato, liberaci Gesù!”. Una preghiera scritta a mano, di getto, che portava sempre con sé; parole semplici e vere come era lui, Lucien Botovasoa, il martire della fede ucciso il 14 aprile 1947 e ora beatificato dalla Chiesa a Vohipeno, comune rurale del Madagascar orientale. Un frutto dolce e rigoglioso dell’allora ancora giovane albero missionario, “piantato” nell’isola africana solo dal 1899, neanche dieci anni prima della sua nascita.

Un maestro della carità, della verità e del bene

I missionari del suo piccolo villaggio capiscono subito che è uno speciale, così lo mandano a studiare dai Gesuiti e lui torna trasformato in maestro, ma anche in musicista eccezionale e grande sportivo: tutte doti che metterà immediatamente a disposizione della Chiesa locale. Colto, poliglotta, amato dai suoi allievi che lo soprannominarono “u be pikopiko”, cioè seme rosso, perché lo vedevano sempre intento a sgranare il Rosario, sarà proprio la fama della sua solidissima fede a precederlo. “Lucien insegnava a fare il bene, a vivere in pace con il prossimo, a formare una comunità fraterna, accogliente e rispettosa – sottolinea il Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, cardinale Angelo Amato – all’odio rispondeva con la carità, alla divisione con la comunione, alla menzogna con la verità, al male con il bene. Era un autentico maestro di vita buona: buon cittadino, padre affettuoso, sposo premuroso”.

L’incontro d’amore con i Terziari Francescani

E fu proprio nel matrimonio che riuscì a vivere con pienezza la sua fede, anticipando di fatto di almeno vent’anni l’apertura al ruolo dei laici e la dimensione di santità nella quotidianità che saranno tra le cariche innovative del Concilio Vaticano II. Scoperta per caso la Regola dei Terziari Francescani, trovò in essa la possibilità di vivere all’interno del matrimonio in una dimensione di consacrazione, come ricorda ancora il porporato: “Da quel giorno diventa di una povertà e di una pietà straordinarie: abbandona i bei vestiti e si accontenta di semplici sandali, della camicia e dei pantaloni – racconta – digiuna il mercoledì e il venerdì. Si alza a mezzanotte per pregare in ginocchio, poi si reca in chiesa verso le quattro, restandovi fino all’ora della Messa. Francescano nell’anima, è sempre gioioso, prega continuamente, dovunque vada ha sempre il Rosario in mano”.

Non vittima della guerra civile, ma vero martire cristiano

Lucien più di una volta ebbe a dire che non si interessava di politica, ma al soffiare dei venti indipendentisti, in Madagascar i cattolici vennero visti come conniventi con il colonialismo francese, e perciò perseguitati. Durante la Settimana Santa del 1947 molte chiese furono date alle fiamme e molti fedeli raggiunti e uccisi. Anche il “maestro cristiano” venne catturato e processato sommariamente: il suo rifiuto a partecipare all’insurrezione guidata dai capi ribelli locali gli valse la condanna a morte. Condotto sul greto del fiume Matitanana, dove venivano abbattuti i buoi, chiese: “Perché volete uccidermi?”. “Perché sei cristiano”, fu la risposta. “Allora potete farlo – disse – non mi difenderò. Che il mio sangue su questa terra salvi la mia patria”. Il suo corpo fu gettato nel fiume.

“Il Beato ci insegna a vivere il Vangelo e il perdono”

Diciassette anni dopo, uno dei suoi aguzzini, in punto di morte, fece chiamare un sacerdote perché sentiva irrefrenabile il desiderio di essere battezzato prima del trapasso: “Botovasoa mi promise che sarebbe stato con me quando ne avessi avuto bisogno. Ora sento che è presente”, furono le sue ultime parole. Una testimonianza, quella della vita del giovane maestro malgascio, più forte e dirompente di tutti i suoi insegnamenti a parole: “Egli ci insegna a vivere integralmente il Vangelo che è il libro della vita e non della morte, dell’amore e non dell’odio, della fraternità e non della discriminazione – conclude il cardinale Amato – a noi lascia un grande esempio e un’importante eredità: il perdono del prossimo, il perdono anche dei nemici, e l’invito a vivere in fraternità e in pace con tutti”.

vaticannews

Vinitaly. Oltre 80mila imprese, aumentano gli occupati

Oltre 80mila imprese, aumentano gli occupati

Al via domenica a Verona la 52esima edizione di Vinitaly. In Italia si contano oltre 80mila imprese vinicole, tra coltivazione di uva e produzione di vini da uva, con un fatturato annuale che vale 9,6 miliardi di euro, di cui 3,3 miliardi solo in Veneto. Le esportazioni di vini da uva dall’Italia verso il mondo nel 2017 ammontano a circa sei miliardi di euro e registrano una variazione del +6,4% tra 2016 e 2017. Oltre un terzo dell’export italiano parte dal Veneto con 1,5 miliardi di euro, tra gennaio e settembre 2017, +6,4% in un anno, seguito dal Piemonte (677mila euro, +6,1%) e dalla Toscana (665mila euro, +3,3%).
Sono alcuni dei dati diffusi in vista dalla Camera di commercio di Milano Monza Brianza Lodi. L’edizione di quest’anno di Vinitaly si preannuncia da record e ha registrato un aumentato del 25% del numero degli espositori esteri; spazi assegnati in quartiere già lo scorso dicembre; l’incoming di delegazioni commerciali selezionate da 58 Paesi; la presenza di operatori professionali provenienti da 140 nazioni (lo scorso anno aveva visto 128milapresenze totali di cui 48mila dall’estero). In crescita anche l’offerta “verde” con le aree Vivit, Vinitalybio e Fivi, che vede la presenza di 4.319 espositori da 33 Paesi e 13mila vini iscritti.

Intanto l’Area Studi di Mediobanca ha presentato l’aggiornamento annuale dell’indagine sul settore vinicolo italiano e internazionale che analizza i volumi aggregati del periodo 2012-2016.
L’indagine ha dimostrato per i vini italiani una crescita per l’ottavo anno consecutivo. Nel 2017 aumenta il fatturato dellesocietà italiane (+6,5% sul 2016) grazie alla buona performance dell’export (+7,7%), con il boom del commercio verso l’Asia (+21,1%), ma anche al contributo delle vendite domestiche (+5,2%). Aumentano gli occupati (+1,8%), continuano a crescere gli investimenti (+26,7%) e c’è ottimismo sulle aspettative di vendita per il 2018. Punte di diamante si confermano le aziende venete e toscane. Anche l’aggregato dei 15 maggiori produttori internazionali quotati è in crescita.

Da segnalare che nel 2017 l’export delle cantine cooperative ha toccato la cifra record di 1,9 miliardi di euro(+5,6%), una quota pari al 32% del valore complessivo delle esportazioni italiane di vino, che secondo dati Istat si attestano in valore a 5,9 miliardi. Lo afferma un’indagine interna dell’Alleanza cooperative agroalimentari sugli ultimi fatturati delle 480 cantine socie. Se si restringe l’analisi alle prime 25 cantine cooperative per fatturato, emerge che esse realizzano da sole un quinto (21%) di tutte le vendite di vino italiano all’estero. «La grande crescita dell’export cooperativo – spiega il presidente dell’Alleanza delle cooperative agroalimentari, Giorgio Mercuri – conferma l’assoluta posizione di leadership delle nostre associate nella produzione e commercializzazione di vino e avvalora la bontà dei notevoli investimenti realizzati negli ultimi anni dalle cantine proprio per presidiare tutti i principali mercati esteri». Secondo quanto rilevato dal rapporto 2017 dell’Osservatorio della cooperazione agricola italiana, l’export delle prime 25 cantine cooperative ha avuto nell’ultimo anno una crescita del +8,8%, un tasso che è quasi il triplo rispetto a quello registrato nello stesso periodo a livello nazionale (+3,2%). All’Alleanza aderiscono 480 cantine cooperative, per 141mila soci produttori e oltre 9mila addetti, per una produzione pari al 58% della produzione vinicola media del Paese e un giro d’affari di 4,5 miliardi, pari al 44% del totale del fatturato vino nazionale.

Nella classifica delle prime società vinicole per fatturato pubblicata nell’indagine 2018 sul settore dell’Area studi Mediobanca compaiono anche quest’anno otto cantine cooperative tutte con fatturati superiori a 100 milioni di euro: Cantine Riunite &CIV, Caviro, Mezzacorona, Cavit, Soave, Gruppo Cevico, Collis Veneto Wine Group e La Marca.

avvenire

Trenord. Assunzione di personale di bordo anche nel 2018

Assunzione di personale di bordo anche nel 2018

Trenord ha reso noto il piano straordinario di investimenti per i prossimi tre anni. Sono stati aperti i cantieri per modernizzare i treni più datati, con la contemporanea assunzione di 80 nuovi macchinisti e 80 capitreno in tutta la Lombardia entro il prossimo giugno, che renderanno migliore il servizio e contemporaneamente aumenteranno il personale a bordo.

Sono stati selezionati fra 18mila candidati. I percorsi di inserimento proseguiranno al ritmo di 150 all’anno fino al 2020. Nel 2017 si sono registrati finora 155 nuovi inserimenti fra macchinisti e capitreno. Negli ultimi tre anni Trenord ha assunto 303 risorse, in prevalenza nuovo personale viaggiante. Il tutto per garantire puntualità, possibilità di turnazione al personale e maggiore sicurezza per i pendolari.

Il piano di investimenti costerà 415 milioni di euro. Prevista l’installazione di nuovi sistemi di climatizzazione, il rifacimento degli impianti elettrici, la sostituzione di porte e sedili, il rinnovo degli interni e della livrea esterna. I cantieri dedicati sono stati aperti a Milano Fiorenza e Cremona.

avvenire