Il sangue di Cristo

lavati dal peccato nel suo sangue

«E dopo ciò io vidi, contemplando, il corpo che sanguinava abbondantemente a somiglianza della flagellazione, ed era così: la pelle splendente era lacerata da profonde ferite che penetravano nella tenera carne a causa dei duri colpi su tutto il dolce corpo. Il sangue caldo scorreva con tale abbondanza che non si riusciva a vedere né la pelle né le ferite, perché tutto era coperto di sangue». (12.165)

Non si può certo pensare a un cammino di meditazione sulla passione di Gesù senza fare i conti con il sangue, per quanto ciò possa suscitare sensazioni di disagio e di ripulsa.

Il punto di partenza scelto da Giuliana è quanto di più cruento si possa immaginare, la flagellazione, che, come si sa, non era semplicemente una punizione, ma un mezzo scelto per abbreviare l’agonia del condannato, prosciugando in anticipo il corpo della sua linfa vitale. Questo va detto, perché, se l’elaborazione teologica rischia di illudere che, alla fine, si tratti solo di belle immagini, in certi casi persino affascinanti, la base resta pur sempre il realismo tragico di un corpo squarciato senza pietà da sferze e flagelli.

Possono aiutare in questa “contemplazione” le parole stesse della reclusa quali si trovano nella Quarta Rivelazione, dal titolo significativo: “Come Dio preferisca che noi siamo lavati dal peccato nel suo sangue piuttosto che nell’acqua, perché il suo sangue è preziosissimo”, dove lo sguardo si focalizza sulla coronazione di spine.

«E in quel momento vidi improvvisamente il sangue rosso scorrere giù dalla corona, caldo, gorgogliante, abbondante e vivo, proprio come quando la corona di spine veniva premuta a forza sul suo capo benedetto (4,143). E per tutto il tempo in cui egli mi rivelò quanto ho detto in visione spirituale, vidi con visione corporea il capo di Cristo che continuava a sanguinare abbondantemente. Grosse gocce di sangue cadevano come grani dalla corona di spine, e sembrava che uscissero dalle vene. E nell’uscire erano di un rosso scuro, perché il sangue era molto spesso. E nello scorrere fuori diventavano di un rosso lucente. E quando giungevano alle sopracciglia svanivano. E nonostante ciò lo scorrere del sangue continuò fino a che non vidi e capii molte cose. Tuttavia la visione continuò ad essere bella e viva… Il sangue stillava abbondante come le gocce d’acqua che cadono dalla grondaia di una casa dopo un forte acquazzone: cadono così spesse che nessuno riesce a contarle con la sua intelligenza naturale». (7,150)

Giuliana chiama “visione spirituale” quella in cui le si rivela il significato teologico di quanto vede nella “visione corporea”: avvertimento opportuno, che ci chiede di non separare mai le due visioni, pena il cadere in una comprensione solo emozionale o in una puramente intellettuale. Non è facile, ma se si vuole avere un’intelligenza completa e integrale delle cose, la testa, per non perdersi tra le nuvole, deve sempre essere connessa ai piedi che aderiscono alla terra!

Da dove partire, dunque, per sostare in modo fecondo sulla contemplazione del sangue sparso da Gesù durante la sua passione, da quello apparso sul suo volto come sudore al Getsemani (cf. Lc 22,44) a quello che il colpo di lancia al Calvario fece uscire dal suo petto insieme a gocce d’acqua (cf. Gv 19,34)?

Se il primo richiama la paura, per non dire lo spavento di Gesù di fronte al destino che l’attendeva, l’ultimo sangue è stato da sempre letto come il segno inequivocabile di una vita donata fino al suo esaurirsi nell’ultima stilla. Vediamo così riuniti i due temi che aprono e chiudono il campo di significato del sangue: la sofferenza e la paura che ne consegue da una parte, il dono e persino la gioia che lo accompagna dall’altra. Che sia questo secondo il senso profondo e ultimo del sangue lo conferma in modo lapidario uno dei primi e più noti martiri cristiani, Ignazio di Antiochia, che scrive «Il sangue di Cristo è la carità» (Ai Tralliani 8,2), per il che esprime il desiderio di voler «bere il sangue di Cristo, che è l’amore incorruttibile» (Ai Romani 7,3).

Anche se oggi parlare di sangue, soprattutto nel discorso religioso, crea un vago senso di ritrosia, occorre ricordare che ci furono altre stagioni, per esempio l’Ottocento, in cui venne creata persino una festa del “Preziosissimo Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo”, fissata al 1° luglio ed estesa da Pio IX alla Chiesa universale nel 1849, poi soppressa dopo il Vaticano II.

Il culto lungo la storia

Sotto questo titolo, sempre nell’Ottocento, furono create non meno di quindici congregazioni religiose, e non è detto che non ci si ritorni in questi tempi di martiri. Meditare sul sangue di Cristo deve anzitutto ricordare la generosità inaudita, sua e di tanti suoi seguaci, dichiarati o anonimi (penso agli innumerevoli martiri per la giustizia), che hanno proclamato con questo loro sacrificio il valore della vita proprio mentre la perdevano, e la speranza di una risurrezione. Perché, in effetti, il messaggio più forte che viene dal sangue sparso per amore, è insieme quello di una grande speranza che, alla fine, a trionfare non sarà il buio, ma la luce, e che l’oblò di cui si parlava all’inizio finirà per sfolgorare come il sole. Paradossalmente, proprio questo è il messaggio dell’Apocalisse, che vede sconfitta la Babilonia della malvagità e vincente la Gerusalemme del cielo, dove canteranno la gloria del Signore gli eletti che hanno lavato le loro bianche vesti nel sangue dell’Agnello (cf. Ap 7,10.14; 12,11)!

Abbondante e prezioso

Veniamo a Giuliana, che si dice impressionata dall’abbondanza del sangue sparso nella passione. Scrive: «Allora mi venne in mente che Dio ha creato abbondanza di acque sulla terra per il nostro uso e per le nostre necessità fisiche secondo il tenero amore che egli ha per noi. Ma tuttavia egli preferisce che noi prendiamo come medicina perfetta il suo sangue beato per lavarci dai nostri peccati: perché non c’è altra bevanda nel creato che egli desideri maggiormente darci. Perché il suo sangue è abbondantissimo, così come è preziosissimo per virtù della beata divinità» (12,165).

Nel passo trionfa la logica del “dono” come si è detto. E sull’onda di tale intuizione, Giuliana esplode in una pagina mirabile, che ha la solennità e il passo delle grandi anafore eucaristiche che ci hanno consegnato le antiche liturgie. Ecco il “poema” che ne esce:

«Il preziosissimo sangue di nostro Signore Gesù Cristo, come è veramente inestimabile, è altrettanto veramente sovrabbondante.
Contempla e vedi le virtù di questa preziosa abbondanza del suo preziosissimo sangue. Discese nell’inferno e
ne spezzò le catene, e liberò tutti quelli che vi erano detenuti e che ora appartengono alla corte del cielo.
La preziosa abbondanza del suo preziosissimo sangue scorre su tutta la terra, ed è in grado di lavare dal peccato
tutte le creature che sono, sono state o saranno di buona volontà.
La preziosa abbondanza del suo preziosissimo sangue ascese in cielo nel corpo beato del nostro Signore Gesù
Cristo, e là ora sta in lui, continuando a scorrere, pregando per noi il Padre, e così è e sarà fino a quando noi ne avremo bisogno. E inoltre scorre in tutto il cielo, nella gioia per la salvezza di tutta l’umanità che ora è là, e di quella che ci sarà, riempiendo così il numero degli eletti che attende di essere completato». (12.165-166)

L’abbondanza è stata tradotta in energia dirompente che scardina le porte del carcere infernale, con lo stesso impeto con cui le acque dal Mar Rosso seppellirono i nemici di Israele liberando il popolo dall’oppressione; diventa benefico diluvio che purifica distruggendo le forze del male, «perché quel torrente di misericordia che è il suo preziosissimo sangue e acqua è così abbondante da farci belli e immacolati» (61.280); arriva fino a insediarsi nel cielo, dove, come una fontana inesauribile, continua a svolgere il suo potere di intercessione in nostro favore (cf. Eb 7,25) e a zampillare gioia e felicità per tutti gli eletti che ci sono e ci saranno.

Cristo, nostra Madre carissima

Oltre a questa visione cosmica e sintesi teologica straordinaria, Giuliana sa anche offrirci visioni di una delicatezza commovente, come quando scrive che Cristo, nostra Madre carissima, «ci aspergerà tutti con il suo sangue prezioso» (63.283), unendo la tenerezza della mamma che lava il bambino con il gesto liturgico del pontefice che purifica l’assemblea.

Per finire mi piace citare una bella poesia del medioevo inglese dove, con un’intuizione geniale, l’anonimo autore trasfigura il sangue nell’appello di un innamorato perché l’amata lo lasci entrare:

«Apri la porta, mia sposa cara. /
Ahimè, perché son chiuso fuori? /
Sono il tuo nobile
compagno. /
Guarda i miei riccioli e il mio capo, /
e tutto il corpo di sangue intriso, /
per amor tuo».

Il Cristo dolente di tante raffigurazioni medievali è diventato l’innamorato del Cantico che supplica l’amata: «Aprimi, sorella, amica mia… Rorida di rugiada è la mia testa e i miei riccioli sono bagnati di gocce della notte» (Ct 5,2), un passo che rimanda pure ad Ap 3,20. Il trasferimento di immagine dalla rugiada al sangue, come per le piaghe che si trasfigurano in “nido”, produce l’effetto sorprendente di inserire nella figura del sangue quella del rapporto d’amore, inteso soprattutto in termini di intimità, dove si sperimenta l’apoteosi del dono di sé.

settimananews

Giona e le coppie in crisi

Scalabrini, Zattoni, Gillini, Giona, alzati e va' a Ninive

Un volumetto veramente delizioso. Il biblista bergamasco introduce e commenta con acribia esegetica e narratologica mai pesante il libretto del profeta Giona, la “colomba” ribelle.

Giona non è solo una favola satirica rivolta contro il particolarismo nazionalista postesilico di Esdra e Neemia che giunge a imporre la rottura dei matrimoni misti già in atto, mostrando invece un Dio universalista.

Non è che Giona fugga dalla sua vocazione. Fugge dal presentimento che il suo Dio non manterrà la sua dura parola di ammonimento e di giusta punizione per Ninive, la capitale dei nemici di sempre di Israele, famosi per la loro efferata crudeltà e dura oppressione delle popolazioni sconfitte.

Giona intraprende un cammino inverso a quello comandatogli, con una fuga in orizzontale e un nascondimento verticale che lo porta a Giaffa, nella nave, nella sua sentina, nell’abisso, nel ventre del pesce (femminile). Prega un salmo di ringraziamento per una salvezza già avvertita come avvenuta, “rinasce” dal grembo del pesce (femminile), predica il duro ammonimento di YHWH a Ninive e si apposta da lontano per vedere il finale della vicenda.

Giona si sdegna perché YHWH si pente del male promesso, dei quaranta giorni che sono diventati un tempo sufficiente ai niniviti a convertirsi. Si arrabbia ancora di più per il libero dono del ricino, pura grazia di Dio, velocissimo, “superfluo” in un certo senso, data l’ombra già da lui steso procurata con la costruzione dal capanna. “Anche questa ci mancava”, si dice in famiglia…

Giona si sdegna della grazia, non apprezza la grazia, il gratuito di YHWH. E YHWH non dovrebbe aver compassione di uomini e animali che hanno iniziato a convertirsi dalla violenza che è nelle loro mani e che non hanno una coscienza illuminata, non distinguendo la destra dalla sinistra?

Uscendo dal mio campo abituale dell’esegesi, ancora più mi ha avvinto la rilettura di Giona fatta dalla coppia di pedagogisti e di consulenti per la famiglia.

Una lettura contestuale fa apparire il parallelismo tra Giona e la vita della coppia (sui quali non avevo mai lavorato). Giona è il libro della fedeltà, metafora della storia coniugale.

Servendosi anche di una storia vera di separazione (Simona e Federico), Zattoni e Gillini seguono i meandri nei quali la coppia può esser avvinta dal proprio male che li porta a venir meno al patto di alleanza, a recriminazioni acide e a rimproveri rancorosi al partner.

Come Giona, la coppia deve alzarsi (qûm!: Gn1,1; 3,1), non essere succube della mancanza di speranza e andare a Ninive, il simbolo della società liquida di oggi, dalla cultura violenta e nichilista che combatte a spada tratta la stabilità dell’amore. La coppia deve evangelizzare le periferie, considerate nemiche e “perse” in partenza.

Giona fugge verso Tarsis, la sicurezza, la tranquillità piatta e falsamente serena. Se la coppia fugge lontano dal Signore, cercando la propria volontà e la realizzazione dei propri progetti, magari uno all’insaputa dell’altro, ci si trova presi da tempeste, da un vortice di attese non realizzate, da regressioni. La fedeltà si presenta come autoevidente, diventa libertà quale diritto all’autonomia e alla realizzazione delle esigenze e dei progetti personali prima di ogni altra cosa. Si diventa fedeli, disperatamente, solo a se stessi.

I “marinai” e il capitano” vogliono aiutare Giona, come tanti amici e coppie di pastorale familiare. Dio non provoca il male come punizione perché Giona apprenda la lezione. Dio è provvidenza amorosa che segue, ama, recupera, è gratuito nel suo fare.

Nella sua preghiera Giona rimane legato al suo Dio, che non lo lascia perdere. La preghiera è importante per recuperare il progetto comune della coppia. In essa due sono i co-piloti, e nessuno è comandante in seconda.

“Lo sapevo”, pensa Giona al vedere la grazia di YHWH, che “si pente” e ritorna sui suoi passi. In psicologia psico-dinamica “lo sapevo” è la “profezia che si autodetermina” tipica delle crisi matrimoniali. Come la regressione costituita del rinfacciare all’altro anche (in questo forse aiutati da amici e parenti): “ha sempre fatto così, fin da piccolo”.

Fare di ogni erba un fascio e avere sempre in tasca il metro di misura e della perfezione, impedisce che nella coppia e nella società si instauri un rapporto di grazia, di gratuità.

YHWH non vuole un’obbedienza cieca da parte di Giona, ma rispettala sua libertà e suo amore ferito per l’“esagerata” bontà del suo Dio, che mette in crisi il giusto e necessario rapporto di colpa e punizione che per Giona deve reggere sempre la società.

YHWH dona a Giona il dono “superfluo” del ricino (visto che l’ombra c’era già sufficiente), un “tocco di tenerezza”, per far capire che l’uomo non può fondarsi solo sulle proprie realizzazioni, ma può vivere solo in un regime di gratuito che lascia spazio all’amore più grande. Come reagirà Giona (e le coppie in crisi)? Il finale della novella è un finale aperto.

Dio cede all’amore, obbedisce all’amore. L’amore è più grande di Dio? Sembra. Ma Dio è amore! (1Gv 4,8).

Un bel libro, ottimo per un percorso biblico-esperienziale con fidanzati, sposi, coppie in difficoltà.

La bibliografia delle pp. 161-164 (distinta secondo i due contributi diversi raccolti nel libro) aiuta l’approfondimento del tema e degli strumenti per relazionarsi in modo coretto al “miracolo” della coppia e della famiglia, realtà delicata, fragile, ma bellissima quando lascia vivere il gratuito e la fantasia del dono.

Patrizio Rota ScalabriniMaria Teresa ZattoniGilberto Gillini,Giona, alzati e va’ a Ninive. Un comando che vale anche per gli sposi di oggi(Nuovi Saggi Queriniana 92), Queriniana, Brescia 2018, pp. 168, € 13,00.

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Kèfa, la roccia

Dopo aver cantato insieme l’Hallel, al termine di quella cena nella quale Yehûdāh era scappato via senza salutare, Yehoshua si alzò da tavola e fece cenno a tutti di uscire.

Una luna panciuta, ben alta in cielo, era lì a farsi unica lampada lungo il loro pellegrinare.

Tutti sapevano che via avrebbero fatto: prima del calar del sole,  spesso i dodici si ritiravano insieme in preghiera vicino al frantoio.

Quella sera però un impalpabile alone sembrava ingrigire tutto. Nessuno fra gli undici osò infrangere il silenzio, che ormai signoreggiava dall’ultimo alleluja.

pietro e giovanni

Camminavano dietro di Lui, per la china che porta al Getzemani. Il passo di Yehoshua era più svelto e deciso che mai. Simone subito dietro, a seguire gli altri.

Improvvisamente il Rabbi si fermò.

Voltatosi verso i suoi – che in pendenza gli sembravano più bassi, a motivo dell’altura che insieme salivano – disse: «Voi tutti vi scandalizzerete per causa mia in questa notte. Ricordate il profeta: “percuoterò il pastore e le pecore del gregge saranno disperse”. Ma dopo la mia risurrezione vi precederò in Galilea».

Con la rapidità d’un lampo, in un impeto di devota fierezza, disse Simone: «Io non mi scandalizzerò mai di te, anche se tutti ci dovessero abbandonare».

E Yehoshua, guardandolo fisso in volto, con un filo di voce: «Solo stanotte mi rinnegherai tre volte, Simone».

«No, Signore, mai sia! Dovessi pure morire per te oggi!» – rimarcò l’altro.

Non era la prima volta, in verità, che il Rabbi controbilanciava la sua generosità sanguigna e impulsiva. Ma Simone era fatto così. Come quel giorno all’aperto, quando Yehoshua annunciò per sé dolori e sconfitte e lui, presolo in disparte a braccetto, gli disse: «Ma non sono cose da dirsi, Signore».

E il Rabbi scostatosi bruscamente e attirando l’attenzione di tutti ammonì: «Satana! Tu non pensi secondo il cuore di Dio».

Quella però fu solo una tappa del lungo apprendistato del vecchio e franco Simone.

Era un uomo robusto, di una altezza perfetta per stare ritto sulla barca senza vacillare. Le sue mani si erano incallite a furia di sollevare le reti e di strofinare coi remi il lago impassibile.

pietro, mani

Non aveva studiato granché, eppure esibiva un senso pratico stupefacente. Era un vero intuitivo: una volta indovinò davanti a tutti persino l’identità di Yehoshua.

Le sue doti, in quella piccola sponda del lago di Galilea, gli consentirono di metter su una bella impresa di pesca, a gestione famigliare.

La sua casa sembrava una piazza di paese (non senza i borbottii di sua suocera): spesso gli uomini andavano da lui per commentare le giornate o sperando che, presto o tardi, avrebbe ingaggiato a lavoro almeno qualcuno dei loro figli.

Mastro Simone sapeva il fatto suo in materia di pesca. E se ne impettiva.

Nessuno però era riuscito ancora a scovare la dote a lui più cara: la sua terribile curiosità.

Un mattino presto, al rientro dalla quotidiana pesca notturna, Simone e suo fratello Andrea tiravano sotto costa le barche, guizzanti di un fresco bottino.

A terra intanto i garzoni, legati gli ormeggi, riassettavano le reti e ne ricucivano gli stappi.

Sulla riva del lago passò misterioso un forestiero.

Si fermò, puntandoli fissi negli occhi.

Non sapevano che fare, né cosa dire, finché quello con fare spigliato ruppe il silenzio: «Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini!».

Un risucchio marino dentro.

Yehoshua aveva fatto breccia nel punto più sensibile di Simone: la sua curiosità. “Pescatori di uomini”: come resistere alla sfida?

Simone fulmineo saltò giù dalla barca.

Reti, guadagno, garzoni, tetto coniugale… tutto lasciò. E lo seguì, con Andrea dietro a lui.

Come avranno guardato a Simone gli ebrei del posto? E la sua sposa? Non poco rocambolesca sarà apparsa l’uscita del noto impresario.

La notizia, oltre che la sua famiglia, scombussolò quasi del tutto l’economia del paese: le maldicenze pullularono ovunque, per le strade e sotto i tetti, come a bordo dei loro vecchi pescherecci rimasti ormai all’uso di inesperti garzoni, di colpo fattisi padroni.

Per la forte eccitazione, la suocera di Simone s’ammalò, assalita da una febbre feroce.

Ma perché la salvezza iniziasse proprio da lì, ella fu la prima ad essere guarita da quell’ignoto pescatore venuto da Nazareth.

Arrivarono intanto al Getzemani.

Yehoshua rivolgendosi a Simone, Giacomo e Giovanni li supplicò di rimanere a vegliare con lui.

Ma come accade spesso in casi così, forse per il vino pasquale o per la fatica della lunga giornata, tutti caddero vittime di un indomabile torpore.

E Yehûdāh venne.

I soldati afferrarono Yehoshua.

Di soprassalto Simone si scosse: mise mano al fodero ed estrasse la spada… Breve resistenza: erano più forti, armati e numerosi.

Tutti allora, abbandonando là il maestro, fuggirono.

Condussero il prigioniero dinanzi al consesso dei pontefici, degli anziani e degli scribi, per un processo sleale nottetempo.

Simone però di lontano non perdeva di vista il suo maestro. Risolse di seguirli fin dentro il cortile del tempio, mischiandosi fra i servi. S’accoccolò vicino al fuoco – ché scemasse il freddo della paura – mentre lì veniva a scaldarsi la giovane serva del sommo sacerdote. Appena lo vide in volto, ne indovinò un galileo: «Ehi, anche tu eri col Nazareno!».

«Non so.. non capisco che vuoi dire», negò nervoso Simone, scivolando furtivamente dal suo cantuccio.

E di nuovo un’altra lo riconobbe e più in là un altro ancora, ma egli sempre di nuovo: «Non lo conosco!».

E in lontananza un gallo cantò.

I soldati intanto uscivano verso il cortile, portando in ceppi l’imputato. Gli occhi di Yehoshua, pescando tra la folla, trovarono subito quelli di Simone: sguardi incrociati, a cercarsi da una solitudine all’altra.

Una fitta nell’anima. Gli salirono subito in petto le parole del Signore: «…prima del mattino, mi rinnegherai, Simone».

Lasciò quell’atrio maledetto. Già a metà strada le lacrime gli riempivano gli occhi. E uscito dalle mura, s’abbandonò ad un pianto acerbo e fragoroso, di un dolore di cui, fino ad allora, non aveva avuto il più lontano sospetto.

Quel sembiante d’agnello inerme, condotto al macello, sarebbe rimasto impresso per sempre negli occhi navigati di Simone.

Non fu il canto del gallo, ma fu proprio quello sguardo a rompere la crosta della sua presunzione: egli vide, impaurito e solo, l’abisso della sua povertà.

Sparì per due giorni interi, per vergogna e per timore e non si sa dove.

Prima che il sole tramontasse per la seconda volta sul suo dolore, decise di rientrare a casa, dove forse erano gli altri, e lì l’amarezza divampò.

Stavano seduti in cerchio: Giovanni raccontava con voce sofferta l’evolversi del truce processo, lavia crucis, le parole di Yehoshua dall’alto del legno… E tutti lo ascoltavano, addolorati per il Rabbi, molto più umiliati dal coraggio di quel giovane, che solo gli era rimasto vicino.

Presi dal sonno e dalle molte parole, si addormentarono là, senza neanche svestirsi.

Prestissimo bussarono alla porta, era Miriam di Magdala: «Venite! Venite! Hanno portato via il corpo del Signore!».

Simone e Giovanni scattarono.

Gli altri invece, infastiditi da quel trambusto e dalle dicerie di quella donna, pensavano: «A questa le è dato di volta il cervello!».

A grandi passi trottava Giovanni, contro un vento freddo sferzante; Simone di corsa più dietro, appesantito dall’età e dal rimprovero della donna.

Pietro e Giovanni

Arrivato per primo il giovane si chinò verso l’imboccatura del sepolcro: vide per terra le bende funeree, ma non vi entrò.

Giunto anche Simone, subito vi entrò e vide le bende per terra e  piegato, in un luogo a parte, il funebre lenzuolo.

Giovanni allora, dietro lui, vide e credette a quel vuoto: il Signore è davvero risorto!

Dopo questi fatti, Yehoshua in persona fece visita ai suoi nel cenacolo, fugando gli ultimi dubbi. Fu grande la gioia al veder vivo il Signore!

Dopo quell’incontro fulmineo però passarono alcuni giorni senza che Gesù si fosse fatto vivo.

Una notte, quando ancora tutti dormivano, Simone fu svegliato di soprassalto: ebbe l’impressione che quel giorno s’annunziasse presago. S’alzò portandosi alla finestra.

Nel silenzio gli parve di udire l’antico richiamo del lago, la pulsazione della vita che fu: «io vado a pescare!» – disse, svegliando tutti.

Tommaso, Natanaele, Giacomo, Giovanni e altri due, ormai svegli, concordarono: «Beh, veniamo anche noi con te».

Armati di lanterne, reti, ami e tinozze, presero il largo.

Il tempo invano passò nel fondo di quel legno gettato in mare, ed era già l’alba, ma vuote le reti.

D’improvviso una voce questuante dalla riva: «Non avete nulla da mangiare?».

«Nulla!», gli risposero.

«Gettate dalla parte destra e troverete!», promise di lontano la sagoma di un uomo.

Colsero la sfida. E come l’ebbero gettata, vibrò un turbinio nel liquido elemento sotto la barca, come un imbuto d’aria a mulinello: le reti di colpo gonfie, incontenibili!

Giovanni allora gridò: «Sì, è il Signore!».

Simone, cintosi i fianchi col camiciotto – perché era spoglio – di scatto si tuffò verso la sponda.

Gli altri con la barca a seguire.

Giunto a riva, vide quell’uomo vicino alla brace con sopra del pesce e del pane.

«Portate un po’ della pesca che avete colto or ora!», disse Yehoshua.

Simone commosso obbedì.

Nessuno dei presenti osava domandargli «chi sei?», poiché ben lo conoscevano. Yehoshua li fece sedere accanto a sé e offrì loro del pane e del pesce.

Quand’ebbero mangiato, il Maestro s’alzo e chiamò Simone: «Allora Simone, figlio di Giona, mi vuoi bene?».

Rispose: «Oh Signore, tu solo mi conosci e sai che ti voglio un gran  bene».

E Yehoshua a lui: «Simone, d’ora in poi ti chiamerai Kèfa, che vuol dire pietra, perché su di te edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non la vinceranno, mai».

Simone, quest’uomo generoso e friabile, sarà Kefa: la roccia della Chiesa.

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Amaladoss: vicende di un teologo e della teologia

Michael Amaladoss è sacerdote della Compagnia di Gesù, nato in India, a Tamil Nadu. Ha scritto 34 libri e circa 475 articoli; tra i volumi in italiano, ricordiamo La missione oggi. Roma, 1989; Rinnovare tutte le cose, Arkeios. Roma 1993; Oltre l’inculturazione. Unità e pluralità delle Chiese, EMI, Bologna 2000; Teologia in Asia, Queriniana, Brescia 2006 (ed. con Rosino Gibellini) (Making Harmony: Living in a Pluralist World; The Dancing Cosmos: A Way to Harmony; Peace on Earth e We Believe). Le EDB hanno pubblicato nel 2007 il suo testo Il Volto asiatico di Gesù e, nel 2008,Costruire pace in un mondo pluralista È stato consigliere generale della Compagnia e, al presente, è direttore dell’Istituto di dialogo con le culture e le religioni a Chennai (India). Lo abbiamo incontrato durante uno dei suoi ormai rari viaggio in Italia.

Inculturazione a doppia velocità

– Gesù è nato, vissuto, morto e risorto in Asia, ma viene normalmente percepito come espressione della cultura occidentale. La prima inculturazione ha avuto successo, tanto da rendere difficile l’inculturazione di ritorno in Asia. Ci sono segni di un processo di inculturazione in India?

L’espressione più vistosa dell’inculturazione, cioè la liturgia, è un processo incompiuto. La Chiesa concede una semplice traduzione letterale dei testi. La vita di fede, invece, si può dire inculturata. La celebrazione dei riti, del matrimonio per esempio, non segue tanto le tradizioni religiose, quanto piuttosto le tradizioni fissate dalle caste. L’inculturazione della vita cristiana avviene nella vita quotidiana, ma non riesce a darsi le forme “canoniche”.

Viviamo in un paese interreligioso, ma i gruppi di fedeli sono abbastanza liberi, così cerchiamo soprattutto di incoraggiare la conoscenza reciproca e la collaborazione sul campo. Noi gesuiti animiamo una serie di iniziative allo scopo. Ad esempio, dallo scorso anno, circa 120 studenti, che hanno seguito un programma avviato circa 5 anni fa, vanno nelle scuole dei più giovani per cercare di comunicare l’esperienza fatta e questo per i bambini è più efficace. Il programma scolastico riserva alcuni giorni a queste iniziative speciali per le quali vengono concesse due ore.

Anche il culto della Vergine e dei santi è sempre più accettato e paradossalmente occasione di incontro interreligioso. Nel nostro santuario di Sant’Antonino in Chennai (Tamil Nadu) c’è folla dalle 6 del mattino fino alle 8 di sera. Ho visto anche musulmani e hindu. Alcuni cristiani non vengono alla messa domenicale, ma il martedì vanno al santuario. La religione popolare costituisce una base di dialogo.

La Chiesa non si serve di questi momenti per fare evangelizzazione. Semplicemente accoglie benevolmente. Per il pellegrinaggio al santuario di Nostra Signora della Salute a Velanganni (Chennai) – paragonabile al Cammino di Santiago – lungo il tragitto vengono predisposti dei punti di ristoro, alcuni dei quali sono gestiti da hindu e musulmani. Si crea una fraternità che è comunque positiva. Io credo che tutto questo sia inculturazione.

Michael Amaladoss

Minoranze religiose

– Sembra esserci una sorta di contraddizione tra il senso religioso molto radicato e le forme anche forti di intolleranza a livello politico dei singoli Stati.

Noi diciamo che non è tanto una difficoltà vissuta a livello di fede, ma è una questione politica. La religione assume una dimensione politica. Chi è veramente religioso è aperto. L’intolleranza è di piccoli gruppi, soprattutto nel Nord. Nel nostro collegio di Chennai, il 50% degli studenti sono non cristiani.

– Ci sono voci insistenti di un peggioramento della situazione delle minoranze religiose in India.

Il peggioramento non è molto forte, ma c’è e giustifica questa impressione. Non è un indirizzo politico ufficiale. Il governo tollera che qua e là alcuni gruppi (soprattutto al Nord) mettano in atto azioni dai connotati fondamentalisti.

– Quando si parla di “disposizioni” negative nei confronti del cristianesimo, quando nelle scuole si chiede l’insegnamento del culto hindu o quando nell’Orissa si negano gli indennizzi per le violenze del 2008… Sono fenomeni locali?

Sì, si tratta di fenomeni locali. Molti studenti non accettano l’insegnamento del culto nelle scuole. Anche i teologi non lo vedono con favore. Né è vista con favore la creazione di sale multireligiose. L’hindu prega nel tempio. Il musulmano può pregare dappertutto, però sempre in gruppo. Non c’è domanda di luoghi di culto interreligiosi.

Rapporti ecumenici

– I malabaresi e loro Sinodo.

Quello dei malabaresi è un problema. Sono diventati più insistenti sulla difesa delle loro prerogative. Sono diventati una Chiesa nazionale, i cui membri sono presenti un po’ dovunque. È il frutto di una decisione vaticana. Ha avuto inizio con vescovi propri a Mumbai e Delhi. La scelta è stata inizialmente contestata, ma ora è accettata. A Chennai, ad esempio, c’è un vescovo e ci sono le loro chiese. A Mumbai la Chiesa malabarese insiste che tutti i cristiani dello stesso rito devono andare nelle loro chiese. Invece, ci vanno soltanto in circostanze particolari come i matrimoni. In quel momento, i pastori possono chiedere il perché della loro mancata presenza. C’è un controllo più insistente. Per i latini non c’è problema.

Il problema ha più un profilo internazionale. Ci sono due vescovi malabaresi: uno negli Stati Uniti e uno a Parigi per tutta l’Europa. Non è una scelta saggia. Nel 1969, subito dopo il Concilio, si è tenuto a Bangalore un incontro durante il quale abbiamo parlato della Chiesa e dell’inculturazione. Io ero rappresentante degli studenti a quel tempo. Ne è uscita una risoluzione che invita ogni Chiesa a inculturarsi. Possiamo vedere un futuro dove, inculturandosi, loro si fanno più prossimi. I riti malabaresi, latino e malankarese, sono tutti stranieri. Potremmo fare un unico rito indiano nel quale convergere. Allora c’era molto entusiasmo per questo orientamento. I latini avevano preparato una messa indiana e il rito siro-malabarico aveva predisposto qualcosa di simile.

– Queste divisioni interne ai cattolici, che effetto hanno sulle altre religioni?

Non ci sono effetti rilevanti. Per loro sono tutti semplicemente cristiani. A Chennai, ad esempio c’è il nostro collegio latino e un collegio universitario della Chiesa malabarese, ma per la gente ci sono due collegi cristiani. È un problema interno alla Chiesa. Può avere maggiore rilevanza in Kerala, dove questi riti convivono.

In Kerala – ma non soltanto – la divisione fra Chiesa latina e malabarese riproduce la divisione fra le caste. Il rito malabarese raccoglie in maggioranza la persone benestanti, i proprietari terrieri; è una Chiesa più antica che raccoglie i convertiti da san Tommaso. I latini sono soprattutto pescatori, convertiti da san Francesco Saverio. Così si dice che qualcuno del rito malabarese non può sposarsi con un partner di rito latino; in questo modo si veste di rito una divisione che è di casta. La divisione è anche geografica: i latini sono soprattutto lungo la costa, i malabaresi all’interno. Nelle grandi città convivono. Ma se io mostro loro queste divisioni, le negano; negano il legame con le caste.

Michael Amaladoss

Liturgia siro-malabarese in Kerala

Una teologia indiana

– La teologia in India è differente? Quali sono i suoi tratti specifici?

La teologia in India ha una sua particolarità a livello della riflessione, dell’impostazione. Noi collochiamo la teologia nel contesto. E il contesto è diverso da quello di san Tommaso. Il metodo è differente. La nostra teologia prende le mosse da riferimenti alla sociologia. Si va nei villaggi, tra cristiani e non cristiani, per ascoltare la loro esperienza di Dio e prendendo parte alle discussioni. A partire da questo ascolto delle esperienze, il pastore e il teologo sono chiamati a riflettere sulla Scrittura e sulla Tradizione. È una teologia contestuale che si lascia condizionare dall’esperienza. Sono soprattutto le congregazioni religiose ad agire così, perché godono di una libertà maggiore. È più difficile per la teologia nei seminari, perché il controllo è maggiore.

Già nel 1974 la Compagnia di Gesù aveva attivato un gruppo per lo studio dell’inculturazione. Da questo sono nati i centri regionali di teologia. I nostri giovani fanno due anni di teologia a Chennai, dove apprendono il metodo contestuale; il terzo anno vanno a Delhi, dove studiano in inglese. Il quarto anno tornano a Chennai per una formazione pastorale e per il diaconato. All’inizio vi erano 7 o 8 centri regionali nel Paese; ora ne sono rimasti solo 3, non perché non funzioni la teologia contestuale, ma perché non ci sono sufficienti candidati per costituire un centro. I gesuiti hanno cominciato questo e altre congregazioni stanno cercando di replicare il metodo, con qualche adattamento. Ho sentito qualche mese fa che ora il Vaticano sta opponendo difficoltà. Le resistenze vengono dunque da Roma, dalla Congregazione per il clero e dalla Congregazione per l’educazione cattolica.

– Come è stata recepita Amoris lætitia in India?

Non si parla molto di AL. Vi sono alcuni scritti di alcuni teologi, ma sono interventi sporadici, isolati. Non conosco scritti in proposito. I problemi trattati non sono sentiti emergenti in India. Divorzi ce ne sono, ma non se ne parla molto e non è un problema per i cristiani.

La vicenda personale

– Le è stato attribuito il consenso a «rivedere alcune posizioni alla luce del dialogo» con la Congregazione per la dottrina delle fede (fr. Edward Mudavassery). I problemi iniziati per lei prima di papa Francesco si possono considerare superati?

Direi di sì. L’ultima volta sono andato a Roma per incontrare il card. Müller tre anni fa. Prima c’era stato un processo condotto dal card. Ratzinger che era durato tre anni. In alcuni passaggi sono stato invitato a Roma, ma ho rifiutato perché p. Kolvenbach, in una lettera inviata tramite il suo assistente, diceva che la loro decisione era presa e l’incontro sarebbe stato soltanto formale.

La Congregazione ha invitato il padre generale a due incontri dei consultori. In quelle occasioni non sarebbe stato concesso dire niente, soltanto ascoltare. Mi è stato poi detto che era stato bene non fossi andato.

Tre mesi dopo hanno invitato un teologo indiano che, dopo due riunioni dei consultori, ha ottenuto di poter intervenire per dieci minuti. Ha presentato due punti: primo, nel vostro gruppo ci sono 20 consultori che discutono di un teologo indiano, ma tra di voi non c’è nemmeno un teologo asiatico né africano; siete tutti europei o americani, non potete conoscere la nostra situazione. Secondo, perché non potete sostenere questo dialogo attraverso vescovi indiani? Era l’ultimo anno di cardinalato e Ratzinger ha accettato la proposta. Ha inviato un dossier in India nel marzo 2005 e, ad aprile, è stato eletto papa.

A questo punto ho incontrato un gruppo di due vescovi e due teologi in India, ho scritto un articolo approvato da questo gruppo e l’ho inviato in Vaticano.

Un’altra volta ho incontrato il card. Müller a proposito del mio libro Beyond dialogue (Asian Trading Corporation, 2008) sul dialogo interreligioso. Qualcuno avrebbe dovuto mandare questo libro in Vaticano dove avrebbero voluto incontrarmi. Questa volta il padre generale, Adolfo Nicolás, non mi ha chiesto se volessi venire o no. C’era in programma di vistare Roma e altri Paesi. Mi hanno chiesto cosa volessi fare a Roma, così mi hanno proposto un incontro con il cardinale e, a questo punto, non potevo sottrarmi.

Sono andato dal card. Müller. Con me c’era il padre generale. Dall’altra parte c’erano i cardinali Müller e Ladaria e un giovane spagnolo che parlava inglese, ma che io non conoscevo. Ha parlato mezz’ora; io ho risposto per venti minuti e il padre generale per cinque. Non volevo entrare in conflitto con loro, ma dialogare e venirci incontro allo scopo di preservare la mia libertà. Lottare mi avrebbe esposto al rischio che potessero bloccare tutto. Ho accettato di prendere in considerazione tutti i punti sollevati da Roma. Tornato in India, ho fatto un articolo che ho inviato a Roma e che è stato accettato.

Interessante quello che è successo nell’occasione. Il p. Nicolás aveva informato il papa che si sarebbe tenuto questo incontro. La sera dopo l’incontro il padre generale ha inviato una nota al papa, attraverso il segretario personale. Avevo fatto richiesta di essere presente il giorno dopo alla messa del papa. Io mi sono presentato vestito dei paramenti. Il papa è entrato per indossare i paramenti. Io ero sulla porta. Mi avvicina e mi chiede: «Come è andata ieri sera?». Io ho risposto: «È andata bene». Mi dice poi in inglese : «You have met the lion in his den» («Hai incontrato il leone nella sua tana»).[1]

Tre o quattro mesi dopo, quindici teologi della Gregoriana hanno fatto un libro sull’Evangelii gaudium. Il papa li ha invitati per un incontro. Ciascuno di loro aveva due o tre minuti per presentare il proprio contributo per poi salutare personalmente il papa. Tra questi c’era un indiano. A questi il papa ha detto «Tu sei dell’India? Conosci Amaladoss? Lui è un buon teologo!». Così adesso mi sento il sostegno del papa. Tre mesi fa il mio collaboratore è venuto a Roma e anche lui è andato alla messa in Santa Marta. Incontrando il papa per una brevissima conversazione di due minuti, gli ha portato i miei saluti. E il papa gli ha risposto «Porta i miei saluti al p. Amaladoss».

– Se dovesse fare un parallelo fra la sua vicenda e quella di p. Dupuis, cosa vi avvicina e cosa vi allontana?

Sono d’accordo al 100% con p. Dupuis. Il Vaticano non l’ha condannato. Ha emesso solo una notifica. Io scrivo le stesse cose, la differenza sta nel fatto che è più importante tenere sotto controllo uno che è alla Gregoriana piuttosto di uno che sta in India. Credo che p. Dupuis non sia stato trattato bene. P. Dupuis ha sofferto molto. Si sentiva un buon teologo, e lo era. Questa critica l’ha preso d’improvviso e l’ha shoccato.

Io ero lontano, in India, e avevo motivo per dire “no” a un incontro. Inoltre, siccome sono stato consigliere generale, mi imbattevo ogni anno o due in qualcuno che finiva sotto inchiesta. Così ho potuto conoscere le dinamiche di un confronto con la Congregazione. Ho sempre tenuto una posizione dialogica. Sapevo che non vale la pena lottare con loro. In termini semplicistici, non sono mai stato di centrodestra, né di centro, ma piuttosto di centrosinistra. Non sono un estremista, non si tratta di accusare e condannare; si tratta di dialogare.

– Ha trovato un clima diverso alla Congregazione dalla elezione di papa Francesco?

C’è una differenza. Da due o tre anni in qua si sente parlare molto meno di processi.

Michael Amaladoss

Cardinale Joseph Ratzinger

La Compagnia di Gesù

– La Compagnia di Gesù in India ha un profilo comune e orientamenti condivisi a livello nazionale?

C’è una commissione nazionale per i diversi apostolati – migrazione, apostolato sociale, pastorale. I segretari per tutta l’India si incontrano ogni anno per stilare i piani di intervento. C’è una diversità più evidente tra Sud e Nord, soprattutto Centro-Nord e Nord-Est, dove sono presenti migranti dei Paesi vicini. Qui c’è anche un’evangelizzazione di tipo missionario che non è possibile altrove. Chi vuole fare il “missionario” può andare nel Nord-Est, dove sono possibili anche certe forme di missione.

– Quali sono le scelte prioritarie della Compagnia di Gesù in India?

Più che scelte prioritarie, ci sono delle attenzioni privilegiate. Ci sono gruppi ai quali riserviamo più attenzione. I dalit nel Sud e i tribali nel Nord. La mia Provincia, ad esempio, è molto impegnata con i dalit. Anche tra i gesuiti ci sono molti dalit. Dieci anni fa abbiamo fondato due collegi universitari e due scuole nelle regioni ove ci sono molti dalit. Abbiamo collegi di tradizione centenaria. Il collegio di Chennai ha 80 anni. I nuovi collegi sorgono prevalentemente nelle regioni ove ci sono i dalit.

Due anni fa due gesuiti a Chennai hanno dato vita a un centro per i migranti interni, perché Chennai è una grande città che raccoglie molti migranti dal Nord-Est in cerca di lavoro. Nei ristoranti il personale di servizio è quasi tutto del Nord Est. I gesuiti si occupano di dare loro aiuto concreto e cura pastorale.

Un altro gesuita da due annui si occupa dei migranti indiani nel Medio Oriente, fenomeno molto forte. È facile che un giovane emigri, ma i rapporti con la famiglia sono a rischio.

È un servizio pastorale anche quello di coltivare questi legami. Questi indirizzi, la scelta per la giustizia sociale, sono condivisi in tutta l’India e anche con la congregazione.

– Lavorate con i rifugiati?

In alcune regioni. Nella mia Provincia lavoriamo con i rifugiati dello Sri Lanka, non perché siano molti ma perché parlano la stessa lingua. Nel Nord ci sono i nepali che sono usciti dal Bhutan. Non ci sono più tanti rifugiati dal Pakistan. Ci sono gesuiti che lavorano con loro. A livello nazionale partecipiamo alla rete del Jesuit Refugee Service. C’è un centro a Delhi per il Sud-Est asiatico. C’è meno pressione ora dallo Sri Lanka. Sono di più i migranti interni. C’è molta migrazione dall’India verso altri Paesi, ma si tratta di una migrazione soprattutto di scienziati. Diversa la situazione in Medio Oriente, dove molti migrano per lavoro. È ancora forte il fenomeno delle “vedove di Dubai”.[2] Molti di questi migranti sono musulmani.

Michael Amaladoss

Narendra Modi

Questioni politiche

– Il primo ministro Narendra Modi è una figura discussa. Qualcuno lo definisce un hindu quasi estremista, che manipola la religione in ordine al consenso e che non è affidabile in ordine alla libertà religiosa.

È così. Ma è un politico, perciò i suoi interventi non saranno mai troppo evidenti. Troverà altri che adottano le posizioni estreme, senza che lui ne risulti il mandante o l’ispiratore. Lui potrà sempre prendere le distanze. I suoi ministri intervengono più spesso e apertamente, ma altrettanto spesso devono smentire o ritirare. Lui mantiene il riserbo.

– Che rapporto c’è a livello popolare fra India e Cina?

A livello popolare non è questione sentita. Soltanto vediamo che quando andiamo al mercato, gli articoli vengono in gran parte dalla Cina e sono più economici. A livello popolare si percepisce di non essere molto amici, ma si vuole vivere insieme, senza fomentare le tensioni. Nel Nord c’è più paura della Cina, perché le tensioni ai confini fanno notizia sui giornali.

Il progetto della nuova Via della Seta ha irritato il governo indiano, che vorrebbe proporre un’alternativa. Anche perché il tracciato propone il passaggio nel Kashmir, territorio conteso fra India e Pakistan. La Cina e gli altri sanno bene che l’India non approva, ma non calcano sul tema nei rapporti diplomatici.

– Qual è la situazione attuale nel Tamil Nadu?

Il Tamil Nadu soffre la mancanza di un governo forte. Il partito al potere è diviso e cerca di sopravvivere. Il partito hindu non ha base popolare. In una regione del Tamil Nadu, dai 400.000 elettori hanno ricevuto solo 2.000 voti. Cerca di rafforzarsi in Tamil Nadu con l’aiuto di altri partiti. Il partito centrale (il BJP, Bharatiya Janata Party) cerca di mostrare interesse per il Tamil Nadu per acquisire più forza nella regione. Ma la gente del Tamil Nadu è di indole tollerante e non si presta a progetti fondamentalisti.


[1] Detto inglese per indicare chi affronta un grande rischio.
[2] Donne che vivono come se fossero vedove, perché il marito è migrato per lavoro negli Emirati Arabi.

settimananews