Giornata contro il cancro. Corretto stile di vita previene un tumore su tre

Fondamentale anche la diagnosi precoce. Il dott. Roberto Gasparri, dell’Istituto europeo oncologico di Milano, guida un gruppo di ricerca che ha messo a punto una nuova tecnica per la diagnosi non invasiva del tumore ai polmoni.

Marco Guerra – Città del Vaticano                                  

Non fumare, mangiare bene, fare attività fisica. Sono queste le regole per uno stile di vita sano. Un tumore su tre potrebbe essere evitato seguendo queste semplici prescrizioni. Altrettanto importante è un regolare controllo del proprio stato di salute: un cancro su tre potrebbe essere curato se tutti aderissero ai programmi di screening per la diagnosi precoce.

Questi dati sono stati diffusi in occasione della Giornata mondiale contro il cancro, che si celebra ogni anno il 4 febbraio e che nel 2018 è accompagnata dallo slogan “We can. I can”: noi possiamo, io posso. Insomma ognuno può fare la sua parte per sconfiggere i tumori e questo suona come un appello alla responsabilità personale e all’assunzione di corretti stili di vita.

Tumori in aumento ma cala mortalità

Intanto in Italia nel 2017 si è registrano un aumento dei casi di tumore diagnosticati, con 369.000 nuovi casi rispetto ai 365 mila del 2016. Secondo l’Airc, Associazione italiana per la ricerca sul cancro, le previsioni per i prossimi anni indicano che nel 2030 il cancro sarà la principale causa di morte nel mondo. Tuttavia a fronte di questi dati – sottolinea ancora l’Airc – ci sono i progressi della ricerca che, negli ultimi 2 decenni, hanno contribuito a far diminuire costantemente la mortalità.

Le nuove tecniche di diagnosi del tumore al polmone

Sull’importanza della diagnosi si sofferma il dr. Roberto Gasparri, vice-direttore di chirurgia toracica all’Istituto Europeo Oncologico di Milano (Ieo) e coordinatore di una gruppo di ricerca sulla diagnosi precoce del tumore al polmone. Ai nostri microfoni il dott. Gasparri ha evidenziato i passi in avanti fatti nella diagnosi non invasiva dei tumori al colon, alla prostata e alla mammella. Sono stati conseguiti risultati che hanno consentito di abbattere il tasso di mortalità di queste neoplasie.

da Radio Vaticana

Sport e salute. Ai Giochi dei trapiantati dove partecipare è già la più grande vittoria

I partecipanti ai Giochi in parata per ricordare l'amico Elio Ceccon morto nel 2001 in un incidente sugli sci

I partecipanti ai Giochi in parata per ricordare l’amico Elio Ceccon morto nel 2001 in un incidente sugli sci

Aver vinto ancor prima della gara. È successo questa settimana ai Giochi invernali dei trapiantati e dializzati che si chiudono oggi a Chiesa inValmalenco, in provincia di Sondrio. Ma non è certo avvenuto per la prima volta. Accade sempre, da un quarto di secolo. Perché su questo delicato terreno abbagliante e fragile di neve ciò che conta è sapere che la dura salita si può sempre trasformare in discesa. Quotidiani slalomisti della vita chiamati dalla sorte ad aggirare e lasciarsi alle spalle infiniti pa-letti, talmente stretti da togliere il fiato. Da Chiesa la funivia li porta a duemila metri agli impianti sciistici del passo Palù, storica meta di lombardi soprattutto milanesi. Qui, negli anni, trapiantati e dializzati di mezza Europa si sono dati appuntamento per rivincere insieme ogni volta la gara di una vita ritrovata o da riabbracciare presto, nel caso di chi è sottoposto a dialisi e attende la fatidica chiamata per quel rene che gli può ridare la libertà. Ma non c’è trapianto senza donazione, l’atto di solidarietà più grande che proclama la vita ponendola di diritto sul gradino più alto di ogni podio.

Lo sa bene il 37enne Marco Rigo che con la malattia va a braccetto dall’età di cinque anni e che della vita ha fatto un Supergigante. «Il giorno dopo il mio sesto compleanno – ci racconta al termine della sua penultima giornata di gare – sono stato ricoverato e ho iniziato il mio viaggio nei meandri della sofferenza. Avevo preso il morbillo, ma anziché guarire come succede quasi sempre con le malattie infettive mi ero ritrovato con forti dolori alla schiena e a un fianco. Dopo un mese all’ospedale di Legnano, dove sono nato e risiedo, fui trasferito alla clinica De Marchi di Milano. Da esami più approfonditi la dura sentenza: rene policistico infantile». Marco ovviamente non capisce, la sua famiglia sì. Dall’insufficienza renale cronica a una paresi facciale fino all’entrata forzata in dialisi il passaggio è breve. Il suo tempo di bambino viene così scandito per ore e ore da una macchina. «Studiavo e leggevo, ho imparato a fare tesoro di ogni momento, che è sempre e comunque vita».

Finalmente, dodici anni dopo avergli dato la vita, sua madre supera i test di compatibilità e gli dona un suo rene. Marco torna a una vita normale, mentre le elementari lasciano il posto alle medie. Passa però un solo anno e l’incubo prende forma: rigetto cronico. Cominciano due anni di “stampelle” farmacologiche, finché a 15 anni di nuovo la dialisi. Le medie si trasformano in liceo. «In quei nuovi cinque anni di dialisi – racconta Marco – alla mia fantastica mamma se ne è aggiunta un’altra, Franca Pellini, la fondatrice dell’Aned. C’era anche lei ad aiutarmi e a spronarmi a condurre una vita il più possibile normale». Il liceo finisce e Marco si iscrive a Ingegneria al Politecnico di Milano. Abbracciando anche un’altra decisiva fonte e risorsa: lo sport. E proprio alla compianta grande animatrice dell’Associazione nazionale emodializzati – dialisi e trapianto Onlus è intitolato da nove anni uno dei due trofei dei Giochi invernali. «Da dializzato iniziai a giocare a ping pong – continua Marco –, avevo la necessità di un’attività che mi facesse stare bene. Grazie ad Aned partecipai anche agli Europei di Atene e vinsi addirittura l’oro, mentre l’inverno dopo feci i miei primi Giochi da sciatore». Ma un’altra vittoria intanto è dietro l’angolo: il 16 dicembre del 2000 arriva un nuovo atteso rene: è il secondo trapianto (stavolta, però, non da vivente). Anche il giorno della sua laurea era un 16 dicembre. Da trapiantato intanto fioccano valanghe di medaglie: da pongista due ori mondiali (nel 2005 in Canada e l’anno scorso a Malaga) più uno nel doppio sempre in Spagna, dove conquista anche nel volley un bronzo, come nello sci alcuni Giochi fa.

Chi di ori sulle nevi ne ha invece conquistati a bizzeffe è il più glorioso commissario tecnico che la nazionale di sci abbia mai avuto, il valtellinese prossimo 75enne Mario Cotelli. C’è anche il padre della leggendaria “valanga azzurra” (capitanata da Gustav Thöni e Pierino Gros in quei favolosi anni Settanta) qui in Valmalenco a fare da storico padrino ai Giochi organizzati dall’Aned in collaborazione con Aido, Admo e Avis. «Da quattro anni sono anch’io un dializzato – svela Cotelli –. Colpa della più subdola delle malattie, il diabete, che mi ha anche causato problemi circolatori alle coronarie e alle gambe a causa dei quali non ho voluto rischiare di sottopormi anni fa al trapianto di reni. L’importante è che mi funzioni la testa. Per il resto dalla vita ho avuto tanto, compreso l’aver guidato grandi campioni. Non solo quelli che hanno vinto tutto nei miei otto anni da ct. Ce n’è uno che non ha fatto parte della “valanga azzurra”, ma che è stato uno dei miei migliori giovani allievi, Cesare Lenatti».

Campione giovanile nel ’69 e vincitore della Coppa Italia in slalom gigante nel ’74 e ’75 e in slalom speciale nel ’76, l’oggi 65enne Cesare Lenatti è poi diventato un campione anche nella vita. Anch’egli trapiantato di rene, è da vent’anni l’anima organizzativa e, con l’albergo Tremoggia di Chiesa (centenario gioiello di famiglia), il padrone di casa dei Giochi invernali. «Bisogna tenere sempre vivo lo spirito che anima la cultura della donazione – dice –, perché soltanto con una continua azione di sensibilizzazione possiamo sperare di ridare una vita più piena alle migliaia di persone che sono in lista di attesa per un trapianto d’organo. Io ho avuto il privilegio di riprendermi la vita e sento il dovere morale e concreto di propagare questo dono». E mentre lo dice, ricordando l’amico Elio Ceccon morto in un incidente sulla neve nel 2001 mentre partecipava ai Giochi (a lui è intitolato uno speciale trofeo), guarda negli occhi Antonio Bergomi, tra pochi giorni trentenne. Ha poco meno dell’età dei suoi due figli e abita a tre chilometri, a Lanzada. Due anni fa il suo cuore lo ha tradito e al Papa Giovanni XXIII di Bergamo lo hanno trapiantato. Una cardiopatia ereditata dal padre, morto troppo presto. Per questo, per alimenare la speranza e la cultura del dono, i Giochi non sono (mai) fatti.

da Avvenire

Il cantautore. Max Gazzè: verso Sanremo cantando anche l’anima

Max Gazzè: verso Sanremo cantando anche l'anima

Parli un’ora con Max Gazzè e finisci come Cristalda, negli abissi, trascinato dalle sirene gelose del suo amato Pizzomunno. Ma questo è un dolce naufragare, nell’esoterismo del cantautore più “favoloso”, il migliore – quanto a “contafole” e spirito narrativo – che abbiamo incontrato nell’intronata routine del cantar leggero (per dirla alla Lucio Battisti). Il cinquantenne cantastorie, mai triste, è pronto con disincanto al suo quinto Festival di Sanremo, il quarto da big dopo il debutto nella categoria giovani con Cara Valentina (1997). Da allora Gazzè è una certezza nel nostro panorama musicale e lo conferma con la sua ultima produzione sinfonica. «Pardon, sintonica – corregge – Ai 60 elementi della Bohemian Simphony Orchestra di Praga ho aggiunto sintetizzatori», spiega da maestro anche di fonica. Con perizia ingegneristica discetta di «onde sinusoidali, quadre e a dente di sega, che creano un’amplificazione armonica degli strumenti. Per intenderci: un suono dieci volte superiore rispetto alla reale sezione dei violini dell’orchestra di Praga».

Una sperimentazione riuscita che si ritrova in Alchemaya, opera sintonica dunque, che con la buona stagione si ascolterà nei vari templi operistici nazionali, da Caracalla, allo Sferisterio di Macerata fino all’Arena di Verona. Insomma, qui siamo bel oltre il cantar leggero…

«Ho semplicemente avuto la giusta percezione con quella cosa sublime che è la musica ed è uscito questo concept album diviso in due atti. Nel primo si trovano leggende come La leggenda di Cristalda e Pizzomunno(scritta, come gli altri inediti con mio fratello Francesco). Parto da una narrazione storica, mitologica, come l’origine del mondo, per arrivare a una dimensione alchemica, un viaggio interiore alla Jules Verne, alla scoperta dell’anima, del senso ultimo delle cose e dell’esistenza».

Ogni “pensiero debole” sparisce tra i flutti di quello fortissimo dell’ultimo Gazzè.

«La mia non è una posa ma una ricerca spirituale che porto avanti da sempre. Ho avuto la fortuna di crescere confrontandomi sulla storia delle religioni con mio padre, appassionato di teologia, teneva convegni di sindonologia. Da ragazzino per certi versi precoce, ero affascinato dai testi sacri, dai misteri esseni, dai mano-scritti di Qumran…».

Un “ginnasio” degno di Battiato, per poi prendere la strada del cantautorato, battendo però i sentieri dell’ironia tagliente, “onirica”, alla Rino Gaetano, mettendoci in più tutta la sua originalità fiabesca.

«Ma prima di quella che definisco la mia svolta “pulcinellosa” (storie ironiche, evitando di puntare il dito contro qualcuno o qualcosa), a vent’anni quando ancora vivevo a Bruxelles suonavo tutta un’altra musica con la mia band, i 4 Play 4. Ero l’unico musicista italiano del gruppo, repertorio: soul del nord e sconfinamento nell’acid jazz. Andavamo forte a Londra, suonavamo in tutta Europa. Avevamo bello e pronto un album, ma la casa discografica che ce lo propose ebbe un crac finanziario e subito dopo la band si sciolse. È uno dei pochi rimpianti che ho, quell’album sono sicuro che avrebbe fatto rumore».

E invece cosa accadde poi?

«Che tornai alle miei radici italiane, peraltro mai abbandonate e sventolate con orgoglio, a Bruxelles e a Londra, ascoltando sempre la musica dei nostri cantautori. A Roma ho ricominciato da zero: bassista nei locali, turnista per due anni con Wess. Componevo world music e il mio sogno era incidere con la Bmg. Il discografico Riccardo Clary sente un mio promo e mi chiama a casa. Alla segreteria telefonica – la cambiavo tutti i giorni – lascia detto: “Caro Gazzè, vorrei capire meglio questa sua musica”. Da lì a sei mesi Clary passò alla Virgin e con l’album Contro un’onda del maresono stato il primo artista messo sotto contratto da quella storica etichetta».

Poi l’incontro con i suoi “fratelli” artistici, Daniele Silvestri e Niccolò Fabi.

«Con Daniele ho in pratica “cooprodotto” il suo album Il dado, con Niccolò salimmo agli onori delle classifiche con Vento d’estate. Ritrovarsi ancora tutti e tre in tour e registrare un disco come Il padrone della festa (2014),beh sono momenti di complicità unici e irripetibili. Con Silvestri è accaduto anche lo scorso Natale quando ci siamo esibiti in trio con Carmen Consoli. Fantastico, come memorabile per me rimane la serata dei duetti a Sanremo (2008) quando con Paola Turci e Marina Rei abbiamo cantatoIl solito sesso ».

Canzone difficilotta quella per il pubblico sanremese, al quale ora propone l’altrettanto sofisticata La leggenda di Cristalda e Pizzomunno.

«Era necessario voltare pagina, specie dopo gli ultimi “zumpa-zumpa” de La vita com’è e Ti sembra normale…Ora c’èAlchemaya che è la piena fusione di spirito, corpo e anima».

Eppure nel suo necessario e fisiologico volare alto, lo sa che con Caparezza lei è il cantautore più amato dai bambini?

«Ne sono orgoglioso, anche da papà di cinque figli. Credo che l’empatia con i più piccoli nasca dal ritmo della filastrocca che ritrovano in certe mie canzoni. L’alchimia che si crea viene dal suono che i bambini traducono in parola familiare. Nel mio linguaggio simbolico ritrovano qualcosa di facilmente riconoscibile. Solo così me lo spiego quando mi capita di ascoltare un bambino di cinque anni che canta a memoria Sotto casa ».

Piccoli uomini crescono con la profonda leggerezza dei suoi brani e al tempo stesso con l’imbarazzante superficialità di questa nostra era social…

«Ma io sono fiducioso della coesistenza di mondi diversi e credo nell’umanità che tiene conto del progresso ma possiede ancora la capacità di tornare indietro e di ricercare il senso più profondo della vita. Quindi più il mondo diventerà superficiale e maggiore sarà la ricerca da parte dell’uomo di andare a ritroso per avvicinarsi al divino. Più l’uomo si allontanerà dalla terra e più questa farà in modo che si riavvicini».

Lei si era già avvicinato, in anticipo rispetto ai fatti recenti, alla tematica delle violenze e della molestie sessuali compiute sulle donne, con il brano Atto di forza.

«Giusto scovare gli scheletri nell’armadio dello showbusiness ma non dimentichiamoci che le violenze di cui sono vittime tante donne spesso iniziano tra le mure domestiche. Credo che sia una delle azioni più abominevoli di cui un uomo si possa macchiare e io l’ho denunciata con quella canzone che ottenne il Premio Amnesty Intenational 2014. Grazie ad Amnesty, alla scuola e alle associazioni, oggi il problema viene trattato con maggiore attenzione. E io ne sono felice, anche perché la mia sensibilità musicale è molto “femminile”, come dimostrano tante collaborazioni avute con le nostre cantanti».

Nella serata dei duetti sanremesi si esibirà con una donna del jazz, Rita Marcotulli, e Roberto Gatto. E se questo fosse il Festival di Gazzè…

«Non creiamoci troppe aspettative – sorride sornione –. Aver convinto tutti, dal direttore artistico Claudio Baglioni alla stampa, con La leggenda di Cristalda e Pizzomunno per me è già una vittoria. Se poi, dopo averla cantata sul palco dell’Ariston dall’orchestra di Sanremo riceverò lo stesso consenso ottenuto in prova (applauso a scena aperta e bacchette battenti sui leggii dei violinisti, ndr), be’ allora personalmente lo vivrò come un trionfo».

Avvenire

Letteratura. Giorgia Coppari: «Scrivere ti mette in contatto con Dio»

La scrittrice Giorgia Coppari assieme al marito, Bruno Cantarini, morto nel gennaio del 2015: le sue poesie sono state da poco raccolte in un’edizione curata dalla scrittrice

La scrittrice Giorgia Coppari assieme al marito, Bruno Cantarini, morto nel gennaio del 2015: le sue poesie sono state da poco raccolte in un’edizione curata dalla scrittrice

Dalla casa di Giorgia Coppari l’Adriatico, più che vedersi, si intuisce. è un angolo di mare stretto fra il porto di Ancona e la Mole Vanvitelliana. La grande libreria, le foto dei figli e, alle pareti, i dipinti del marito, Bruno Cantarini. «All’inizio l’artista di famiglia era lui», dice sorridendo la scrittrice. Pittore, musicista e poeta, oltre che insegnante amatissimo dagli studenti, Bruno è morto il 6 gennaio 2015, festa dell’Epifania, sulla soglia del 62 anni.

«La malattia è stata lunga – osserva la moglie – ma da ultimo lui era davvero diventato tutt’uno con Cristo». Le poesie di Cantarini sono state da poco raccolte in Stagioni (pagine 256, euro 15,00), un volume curato dalla stessa Coppari e pubblicato da Itaca, la casa editrice che ha in catalogo i romanzi e i racconti di questa autrice di best seller tanto indiscutibili quanto, paradossalmente, poco conosciuti. Il suo libro di esordio, La promessa, è uscito nel 2011 e da allora ha venduto più di 10mila copie, traguardo di tutto rispetto in un contesto come quello italiano, dove il 96% dei titoli non supera le mille copie. Ma anche un altro romanzo, Qualcosa di buono (2012), è diffuso in almeno settemila copie, mentre si collocano fra le tremila e le duemila copie la raccolta di raccontiTutto al suo posto (2014) e il romanzo più recente, Chiamatemi Isa (2016). Eccezion fatta per La promessa,ambientato alla fine del Settecento, si tratta sempre di storie contemporanee, che prendono spunto dall’osservazione ravvicinata della realtà. «Del resto – ammette Giorgia Coppari – ho iniziato a scrivere proprio a partire dalla mia quotidianità personale. Era più o meno il 2000, stavo per compiere quarant’anni e cominciavo a interrogarmi sulla mia vita. I nostri tre figli stavano crescendo, avevano meno esigenze di prima, ero contenta del mio lavoro di insegnante e, prima ancora, degli studi che avevo fatto, ma nello stesso tempo mi sembrava di non aver combinato nulla di concreto. Di non essere stata capace di lasciare traccia, diciamo. In quel periodo mi piacevano molto i romanzi di Jean-Claude Izzo e forse sono state quelle letture a risvegliare in me il desiderio di raccontare.

Il primissimo tentativo di romanzo, a dire la verità, lo avevo fatto molto prima, più o meno all’età di undici anni. Ricordo benissimo la situazione: era d’estate, una domenica pomeriggio, e mentre i miei uscivano per la passeggiata, io ero rimasta a casa per scrivere la storia di Gambalesta, un bambino che decide di scappare per scoprire il mondo. È una trama che, presto o tardi, potrei riprendere. Per certi versi Fausto, uno dei personaggi diQualcosa di buono, un po’ somiglia a quel piccolo fuggitivo». Prima dei romanzi, però, sono venuti i racconti. «Sì, per la precisione quello che dà il titolo alla raccolta: Tutto al suo posto, appunto – spiega Giorgia Coppari –. Descrivevo di una donna come me, una madre di famiglia alle prese con le piccole faccende da sbrigare. Era un esperimento al quale non davo troppo peso, quasi una scommessa con me stessa. Perché cerchi sempre qualcosa nei libri degli altri?, mi domandavo. Perché non provi a scrivere tu una storia che ti appassioni? Feci leggere quel primo racconto a Bruno, che lo apprezzò e mi incoraggiò a continuare. Per me il suo appoggio è stato decisivo, e lo è ancora oggi. Scrivere significa entrare in una dimensione di mistero, che permette di stabilire relazioni su piani altrimenti impensabili». Un elemento fondamentale, in questo senso, è costituito dal dialogo con le scolaresche che Giorgia Coppari incontra molto di frequente. «Senza contare i miei studenti, che ho sempre davanti a me – scherza –. Lo scambio con i ragazzi è sempre fonte di grande stupore, qui nelle Marche come in Lombardia o in Sicilia. Mi viene in mente, per esempio, il commento di una ragazza a pro- posito dellaPromessa.

Il protagonista, Luigi, è diventato costruttore di navi per amore di Barbara, una donna che sembra non corrispondergli. In modo del tutto fortuito, l’uomo assiste al miracolo della Madonna di San Ciriaco, il prodigio avvenuto nel Duomo di Ancona il 25 giugno 1796, nel pieno dell’avanzata di Napoleone in Italia. Luigi è tra quelli che notano il movimento degli occhi della Vergine ed è in quell’istante, come mi ha fatto notare la ragazza, che tutta l’attesa della sua vita trova compimento. Sono l’autrice del romanzo, è vero, ma non sarei stata capace di esprimermi con tanta chiarezza. Ma non solo i ragazzi a riservare sorprese. In Qualcosa di buono un ruolo importante è svolto da Irma, una badante che viene dal-l’Est e si esprime in un italiano a volte difficoltoso. Più di una persona mi ha confessato che, dopo aver fatto la conoscenza di questo personaggio, ha cominciato a guardare gli stranieri con uno sguardo differente. Sono molto contenta quando si verificano episodi come questo. Il mio desiderio, infatti, è di scrivere per tutti, in modo da raggiungere quante più persone possibili».

Insieme con l’amore coniugale, l’esperienza religiosa è un tema costante nei libri di Giorgia Coppari. «La letteratura ha sempre Dio come interlocutore – afferma –, è sempre un tentativo di rispondere all’interrogativo posto con estrema chiarezza da Guy de Maupassant: che cosa possiamo dire di questa vita nella quale siamo entrati senza averlo chiesto e dalla quale dovremo uscire senza volerlo?». Un nuovo romanzo è già pronto, ma se dovesse tornare su una delle storie che ha già in parte esplorato, Giorgia Coppari si soffermerebbe volentieri sulla vicenda di Lora, la figlia della protagonista di Chiamatemi Isa: «Una donna molto inquieta, che si converte negli Stati Uniti, in un ambiente che anche a me risultava un po’ strano – sostiene –. Poi, qualche tempo fa, mi sono imbattuta in una coppia di pellegrini che si spostavano a piedi da una città all’altra. Lei, di origine polacca, raccontava di aver incontrato la fede proprio in America. Forse con Lora non avevo sbagliato troppo, no? Anche per questo mi piacerebbe scoprire qualcos’altro di lei».

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