I nuovi poveri in giacca e cravatta

L’economia italiana cresce rispetto agli anni precedenti (con il Pil spinto dal contesto internazionale favorevole) ma aumentano le differenze tra chi è sul treno della ripresa e chi, invece, è ancora a terra. Con il risultato che nel complesso il ceto medio è più fragile, i poveri più poveri, il lavoro più instabile. Nel Paese permane una «grande area di povertà e una ancora più grande di vulnerabilità economica e sociale», mentre crescono le diseguaglianze tra il Nord e il Sud e la forbice sociale si allarga. È la fotografia, a tinte abbastanza fosche, che emerge dal «Rapporto 2017 sulla qualità dello sviluppo in Italia» elaborato dalla Fondazione Di Vittorio della Cgil e dall’Istituto Tecnè. Rispetto ad un anno fa, a fronte del 5% che ritiene migliorata la condizione economica della propria famiglia e di un 67% che la ritiene stazionaria, c’è un 28% che l’ha vista ulteriormente peggiorare. Tra i più poveri, con un reddito al di sotto degli 850 euro, il peggioramento è percepito nel 49% dei casi. Pessimismo anche sul futuro economico dell’Italia tra un anno: per il 32%, infatti, sarà peggiore di oggi, per il 51% uguale e solo per il 17% migliore. Non va meglio quando si parla della situazione economica della propria famiglia: il 75% pensa che sarà uguale a quella di oggi, mentre il 16% teme addirittura un peggioramento e solo il 9% vede un miglioramento.

Un elemento di disuguaglianza è legato ai sistemi di protezione sociale che si sono deteriorati: nel Mezzogiorno la qualità dei servizi socio-assistenziali registra un’ulteriore flessione. Nel complesso sono circa 12 milioni gli italiani che non hanno soldi per curarsi. Chi è povero ha probabilità maggiori di restarlo, contrariamente a ciò che accade in altri paesi avanzati. E nemmeno il lavoro, che ne ha sempre costituito l’antidoto (si è creata un’importante area di disagio rappresentata da precari e part time involontari) è in grado ormai dipreservare dai rischi. Nel complesso, la condizione di povertà riguarda circa il 10% dei lavoratori, colpendo anche fasce del ceto medio, come dirigenti e impiegati.

Al Sud un lavoratore dipendente su quattro è povero o quasi povero. I working poors, definiti anche “poveri in giacca e cravatta”, rappresentano una delle più drammatiche conseguenze di questa fase economica. Una zona grigia di nuove povertà. La gerarchia sociale introduce un nuovo tipo di classe, i cosiddetti “penultimi”. Una grossa fetta di popolazione che ha perso speranza e coraggio, che ritiene di non poter puntare più verso l’alto della piramide sociale. Per la segretaria generale della Cgil Susanna Camusso «è la mancanza di fiducia nella prospettiva economica, sia del Paese che delle famiglie, che colpisce. Pochi stanno meglio, molti continuano a stare male». «La qualità della ripresa non è all’altezza delle necessità – continua la leader Cgil -; troppo forte il suo carattere congiunturale e non strutturale, così come troppo elevata resta la differenza tra il Nord e il Sud del Paese».

da Avvenire

Giornata per la vita. «Io, mamma a dodici anni, grido il mio no all’aborto»

La testimonianza di Aurora: «Ero sola contro gli adulti, in difesa del mio bambino»

«La Chiesa intera e in essa le famiglie cristiane guardano alla gioia degli uomini, perché il loro compito è annunciare la buona notizia». Con questa raccomandazione si conclude il messaggio della Cei per la 40esima Giornata Nazionale per la Vita, che si celebra dopodomani. E a partire da queste parole anche l’arcidiocesi di Udine ha organizzato la Festa diocesana per la Vita, inaugurata il 26 gennaio con le testimonianze forti di due adolescenti speciali, la campionessa paralimpica Nicole Orlando (affetta da sindrome di Down) e Aurora Leoni.

«Far nascere questo figlio sarebbe la tua rovina, la tua vita finirebbe qua». Stefano era alto 7 centimetri e già era un pericolo pubblico, insomma, da annientare prima che combinasse danni irreversibili. Ma sveglio com’era (era l’agosto del 2011 quando lo scoprirono rannicchiato nel piccolo utero di sua madre) sfoderò il primo dei suoi assi nella manica: «Per settimane non ci accorgemmo che ero incinta, perché al primo mese ebbi ugualmente il ciclo», spiega Aurora Leoni, «così io e nonna Valentina lo scoprimmo con un mese di ritardo. Vivevo con lei da sempre, perché mia mamma se n’era andata quando avevo un anno e mio padre non l’ho mai conosciuto, per questo ero sotto i servizi sociali di Forlì e ovviamente ci rivolgemmo a loro: avevo 12 anni, ero una bambina e aspettavo un figlio. Tutto il mondo degli adulti si mosse per ‘aiutarmi’, ma aiutarmi ad abortire, invece quel fagiolino era già mio e io non avevo mai provato la felicità che sentivo da quando lo avevo dentro».

Matura come una madre e acerba come l’adolescente che è, Aurora (oggi 19 anni) oscilla tra le sue due anime e prova ad armonizzarle, certa soltanto di una cosa: «Allora ero ribelle e trasgressiva, un colpo di testa dopo l’altro… ma il mio bambino è stato il colpo in testa mandato dal Cielo per salvarmi. Senza di lui oggi sarei sicuramente alla rovina». L’esatto opposto di quanto le diceva l’assistente sociale, cioè, che provava a farla ragionare: «Se lo tieni cosa dirà la gente? Anche i giornali ne parleranno».

Come da copione, pure il padre del bambino trovava saggio eliminare il problema alla radice, anche se in questo caso – bisogna ammetterlo – con l’attenuante dell’età (solo due anni più di Aurora). Motivo per cui quando la bambina raggiante di gioia gli rivela la notizia, la sua sola preoccupazione è «non dirlo a mia mamma», pretesa impossibile. Persino nonna Valentina, pur contraria all’aborto e affezionata alla nipote, sa che non c’è alternativa e attorno ad Aurora il cerchio si stringe. A 12 anni si è in grado di generare la vita ma non si ha voce in capitolo, la legge per lei non prevede il diritto di scelta, così in quattro e quattr’otto i servizi sociali prenotano le visite al consultorio pubblico e la data per l’aborto viene fissata. Ma Stefano ha quell’asso nella manica e ribalta la situazione: «Il ginecologo ha scoperto che era già di tre mesi e mezzo, i termini di legge per abortire erano già scaduti. Lui era seccato, io felicissima. Se non che la legge 194 prevede che per gravissimi problemi a livello psichico si può interrompere la gravidanza anche dopo, così mi portarono di corsa da un neuropsichiatra infantile, che ci desse lui la soluzione». Ma niente da fare neanche lì: rimasta da sola a colloquio con lui, Aurora sfodera la prima delle sue due anime, quella della madre già matura, ripete che quel figlio è suo e lei lo vuole… E Stefano si avvia indenne verso gli 8 centimetri di lunghezza.

I servizi sociali a questo punto chiedono almeno ad Aurora di entrare in comunità, e lei per la gravidanza approda al Cav di Forlì, il Centro di Aiuto alla Vita, dove tuttora vive. «È difficile perché non è come a casa tua, ci sono delle regole, orari da rispettare, vivi in mezzo a tanti bambini», racconta oggi, ma anche dove «ho trovato la mia famiglia e la mia seconda mamma, quella che mi è sempre stata vicina e tuttora lo è», Angela Fabbri, attivissima presidente del Cav e da 30 anni responsabile della Casa d’accoglienza ‘La Tenda’.

È lì che i due bambini, mamma e figlio, crescono uniti, immersi in quel condensato di vita vera che è la casa famiglia, dove altri sette bambini non sono fortunati come Stefano: «Io so bene cosa vuol dire da piccoli non avere la mamma, per questo in casa do una mano a operatori e volontari, anche se di giorno faccio il servizio civile in una scuola elementare a sostegno degli scolari problematici – racconta Aurora –. Di notte invece studio per l’ultimo anno di odontotecnico». Con la stessa forza con cui ha lottato perché Stefano nascesse, ha subito chiarito che non lo avrebbe affidato a nessuno, «non volevo fare con lui lo stesso errore che mia madre aveva fatto con me. Io sono figlia di una donna che ha dato alla luce otto figli da quattro padri diversi, Stefano invece dovrà sempre sapere che lui è la mia priorità, tutto il mondo viene dopo di lui».

Per questo non le importa che il padre non lo abbia riconosciuto e che dopo il primo anno e mezzo abbia anche smesso di venirlo a trovare, «gli alimenti? non li ho mai chiesti e non so che farmene, io ho Stefano e quindi ho tutto », spalanca gli occhi azzurri sotto il caschetto rosso. Il suo bambino, stessi occhi ma capelli d’oro, in sei anni ha già cambiato tre cognomi, il primo scelto dall’ostetrica al parto, il secondo dall’anagrafe, «finalmente a 16 anni la legge mi ha consentito di dargli il mio. E a 18 ho subito iniziato a testimoniare: le donne devono sapere la verità, non è umano ingannarle, si deve dire che abortire significa uccidere tuo figlio. La legge parla chiaro, gli assistenti sociali dovrebbero aiutare la maternità quando è difficile, non farti credere che l’aborto sia una cosa normale. Il giorno in cui ho fatto la prima ecografia l’ho visto, era piccolissimo ma così bello, era il mio dolce maschietto già amato e desiderato. Se avessi dato retta agli adulti, ok, oggi andrei in discoteca e sarei libera, ma la mia vita sarebbe disperata: allora frequentavo una compagnia poco bella e vedo come sono finiti male gli altri, come sono angosciate le mie amiche che hanno abortito. Quella piccola cosina dentro di me mi ha salvata». L’assistente sociale di una volta è stata la prima a portare un regalo a Stefano quando è nato. E oggi uno dei medici del consultorio ogni volta che mi incontra con lui mi dice: «Guarda cosa stavi per perderti».

Avvenire

Percorsi di spiritualità. A Londra il revival della meditazione nell’età secolarizzata

A Londra il revival della meditazione nell'età secolarizzata

Tre giorni per recuperare, riempirsi di Dio e ripartire. Lisa Atkins e Jo Buchanan, tutte due quarantenni, due figli ancora piccoli, hanno occupazioni diversissime. Preside della scuola elementare cattolica statale del Sacro Cuore, a Loughborough, nel cuore d’Inghilterra, la prima. Poliziotta della squadra omicidi delle West Midlands, regione centro occidentale con Birmingham e Coventry, la seconda. Cattolica la preside Atkins, di fede battista l’agente della squadra omicidi Buchanan. A sostenerle, in questi lavori così pesanti è quel Dio che incontrano nei ritiri che fanno almeno una volta l’anno. «Tra aprile e maggio vado via per tre giorni, insieme ad altre sessanta donne cristiane. Ascoltiamo un ospite, preghiamo, facciamo delle passeggiate e anche qualche acquisto. Il ritiro è costruito attorno alla Bibbia e alla lettura delle Scritture».

Jo si ricarica le batterie, in quelle giornate, perché sente di appartenere a una comunità più ampia e può condividere, con altri come lei, la difficoltà di vivere la vita cristiana in una società molto secolarizzata. «Tra i poliziotti britannici pochi sono credenti. I miei colleghi mi prendono in giro perché chiedo il turno che mi consente di andare in chiesa alla domenica e trovano strano che nomini Dio e la Bibbia. So che è un’opportunità di testimoniare Gesù, ma non è facile», racconta la poliziotta. «Parte del mio lavoro è fare sostegno psicologico alle famiglie dove è stata uccisa una persona. Le ore trascorse con i parenti in lutto mi esauriscono. Lavoro dodici, tredici ore al giorno, anche se il mio contratto è soltanto di trenta alla settimana, ed è facile lasciarsi sopraffare dalla pressione e perdere il punto di vista su Dio». «In ritiro – continua – con altre donne cristiane che hanno famiglia, posso dure di radicare in Gesù tutto quello che faccio. Ritrovo la forza di tirare avanti ogni giorno. Unendomi a Cristo metto le cose in prospettiva. È molto facile lasciarsi catturare dalle proprie preoccupazioni, rinchiudersi e affondare mentre, quando ci si fida di Gesù, tutto è possibile. In chiesa trovo anche una direttrice spirituale che incontro regolarmente e mi aiuta con i miei problemi».

Anche la preside Atkins va in ritiro, di solito tre volte l’anno, e anche per lei quella tre giorni è uno strumento contro lo stress. «La diocesi di Nottingham offre ai presidi di tutte le 86 scuole elementari e superiori la possibilità di qualche ora di direzione spirituale e di preghiera. Il ritiro si conclude con la Messa celebrata dal vescovo Patrick McKinney», spiega la preside. «È importantissimo poter parlare con altri dirigenti nella mia stessa condizione, che capiscono le difficoltà del mio lavoro, che è piuttosto solitario». Quest’anno, per la prima volta, Lisa Atkins ha deciso di estendere anche alle sue insegnanti e assistenti la possibilità di ‘nutrirsi spiritualmente’ e di tornare alle radici della loro vocazione. «Andremo, per un giorno di ritiro, all’abbazia cistercense di Monte san Bernardo, dove un monaco parlerà della sua chiamata. A coppie, le insegnanti discuteranno con una collega delle difficoltà che incontrano intrecciando su una piccola corda tanti nodi quanti sono gli ostacoli della vita professionale. Sarà poi la Madonna a scioglierli nelle preghiere che le rivolgeremo». Anche qualche piccolo lavoretto di arte e artigianato farà parte di questa giornata che si concluderà con una cena in un pub. «Chi si prende cura degli altri, come gli insegnanti, deve assicurarsi, prima di tutto, di nutrire, psicologicamente e spiritualmente, anche se stesso», spiega la preside.

Alla scuola elementare del Sacro Cuore gli oltre duecento alunni pregano almeno tre volte al giorno, e fanno meditazione. Un tessuto colorato sul quale sono stati cuciti tanti bottoni, ognuno per ogni bambino, si trova al centro, su un tavolino, accanto a una candela accesa e a un’immagine della Madonna. Seduti per terra, immobili, anche gli scolari di appena quattro anni, ripetono, concentratissimi e a occhi chiusi, la parola ‘Maranatha’, ovvero ‘Vieni Signore Gesù’. «Se ho delle preoccupazioni sento di poterle affidare a Dio e divento più calmo, meno teso», dice Matthew. «Quando ero davvero stressato, alla vigilia di un esame, la meditazione mi ha aiutato», aggiunge Harvey. «I miei genitori si sono separati e ho imparato, pregando, che posso pensare a mio papà anche se non c’è», conclude Rachel.

«La meditazione cristiana è una forma di preghiera antichissima, che risale ai padri del deserto, ed è usata anche da altre religioni», spiega suor Anna Patricia Pereira, che la pratica da cinquant’anni e l’ha introdotta in varie scuole cattoliche della diocesi di Nottingham. «Rilassa, aumentando il livello della serotonina, l’ormone della felicità. Riduce la tensione nel corpo e la pressione nel sangue e spegne quella risposta automatica allo stress che ci fa scappare o diventare aggressivi», anche se il beneficio è soprattutto spirituale. Nel Regno Unito la meditazione cristiana e la sua versione secolarizzata, la ‘mindfulness’, basata sulla terapia cognitiva e raccomandata dall’Istituto Nazionale per la salute e l’eccellenza clinica, vengono praticate da migliaia di persone e usate da centinaia di scuole. Attenzione, però. Quando ci si concentra sulla frase ‘Vieni Signore Gesù’ al centro c’è Cristo ed è quello che conta. Ci si rilassa per poter meditare e raggiungere Dio. Nella meditazione laica, invece, è l’eliminazione di ansia e depressione l’obbiettivo ultimo.

«Gli effetti della meditazione cristiana sulla salute sono ancora migliori di quelli della versione laica», spiega Kim Nataraja, ex docente universitaria, portavoce della ‘Comunità mondiale per la meditazione cristiana’. «Molte persone cominciano a meditare perché soffrono di stress e poi arrivano a Dio. Si tratta di un percorso interiore che può portarci a sentire, fortissima, la presenza di un Essere più grande di noi». «Viviamo freneticamente, sempre di corsa e occupati, e questo può avere conseguenze negative sulla nostra salute perché non abbiamo tempo di prenderci cura di noi stessi e fare spazio ai rapporti umani che ci rendono felici», spiega Jacob Phillips, teologo cattolico, docente all’ateneo londinese di Saint Mary, specializzato in teologia cristiana e dottrina della Chiesa. «La vita spirituale è utilissima perché ci aiuta a fare un passo indietro e prendere responsabilità per la situazione nella quale ci troviamo prima che sia troppo tardi e lo stress ci travolga. Il cristianesimo ci insegna che siamo amati, profondamente, per noi stessi mentre la società nella quale viviamo ci dice che dobbiamo guadagnarci questo amore, un messaggio che non si concilia con il modo in cui gli esseri umani funzionano».

«Nel Regno Unito, che è un paese molto secolarizzato, esiste il rischio che la spiritualità venga messa al servizio della cosiddetta ‘agenda del benessere’, ovvero di tutto quello che aiuta una persona a sentirsi meglio come lo sport o a una dieta più sana», spiega il teologo. «Nelle università i cappellani spesso condividono gli stessi uffici di chi offre agli studenti sostegno psicologico e insegna tecniche di rilassamento e di meditazione. La meditazione, che pure è utilissima per combattere lo stress, può essere ridotta a strumento di benessere, mentre è qualcosa di molto più profondo e grande». «Il cristianesimo – conclude – comporta l’abbandono di sé per mettere al centro della nostra vita Cristo. Prendersi cura di noi stessi è importantissimo e la teologia cattolica dà grande importanza al corpo con il quale si prega e si raggiunge Dio. Ma è Lui che deve essere al centro della nostra vita».

da Avvenire

SPARA DALL’AUTO CONTRO GLI IMMIGRATI NEL CENTRO DI MACERATA

CANDIDATO CON LA LEGA NEL 2017. SCOPPIA LA POLEMICA POLITICA Terrore a Macerata: un uomo ha sparato nelle vie del centro da un’auto ferendo diverse persone tra cui due uomini di colore. L’uomo, che ha colpito anche nella zona dove abitava Innocent Oseghale accusato dell’omicidio di Pamela Mastropietro, è stato fermato. Al momento dell’arresto Luca Traini, 28enne incensurato, ha indossato un tricolore e ha fatto il saluto fascista. In passato vicino a Forza Nuova e Casapound e candidato con la Lega alle comunali 2017. Minniti: nessuno pensi di farsi giustizia da solo. Gentiloni: “L’odio non riuscirà a dividerci”. Salvini polemizza: “Responsabili morali chi ci riempie di clandestini”. “L’episodio di Macerata è segno di un disagio sociale che nasce dall’insicurezza e dalla paura”, il commento del presidente della Cei, il cardinale Bassetti.

ansa