Cristo, principio di tutto

È uno dei tempi più foschi per la Chiesa quello in cui Ambrogio fu inviato come governatore a Milano; sembrò il tempo della «dichiarata guerra a Cristo». Numerose testimonianze di contemporanei descrivono le lotte scatenate contro vescovi, presbiteri e diaconi che non intendevano abbandonare la fede ricevuta con il battesimo e professata nel Simbolo degli apostoli. Ambrogio, divenuto vescovo, scese in campo con l’atteggiamento che lo caratterizzò sempre: umiltà sincera, senza ostentazione, unita alla chiara consapevolezza del proprio dovere di pastore.

Giorgio Maschio, con il volume Cristo principio di ogni cosa. Nel pensiero di sant’Ambrogio, offre un contributo prezioso su una delle figure più luminose della storia della Chiesa, sulla quale non ha mai cessato di diffondere la luce della sua dottrina e il fascino vivo della sua spiritualità.

Da governatore (consularis) di Milano, Ambrogio, in maniera inattesa e singolare, ne divenne il vescovo, lasciandovi un’impronta indelebile nella fede, nella liturgia e nella stessa civiltà.

Diverse vie si possono percorrere per entrare nella conoscenza di sant’Ambrogio – sottolinea il teologo Inos Biffi nella prefazione al volume –; l’autore ne privilegia una che, più di ogni altra, conduce all’intelligenza del suo animo e della sua mente: quella del rapporto che egli intratteneva col «Signore Gesù», come egli amava dire, cioè la via tracciata dalle sue preghiere ardenti e appassionate a Colui che definiva, con immagine ardita e singolare: «seme di tutte le cose» (semen omnium). Per Ambrogio tutto conviene in Cristo e tutto da Lui irraggia: mancando Lui, l’intera realtà si sfalda, sfasciandosi nel nulla.

Un saggio di lettura e studio.

Giorgio Maschio, presbitero diocesano, è docente nello Studio teologico di Treviso-Vittorio Veneto. Tra le sue pubblicazioni: studi su sant’Ambrogio (La figura di Cristo nel Commento al Salmo 118, Augustinianum 2003; Ambrogio di Milano e la Bibbia, Queriniana 2004); su sant’Ireneo (Un destino fuori misura, Marcianum Press 2008); su altri argomenti di patristica (Pregare alla scuola dei Padri, Marcianum Press 2012; Pregare nel Medioevo, Jaca Book 2010; Il mistero nuziale. Letture da Ambrogio e Crisostomo, Messaggero 2013; In ascolto dei Padri, Marcianum 2015). È parroco a Portobuffolè (TV).

Giorgio Maschio, Cristo principio di ogni cosa. Nel pensiero di sant’Ambrogio, Collana editoriale Sophia (Didachè, Percorsi 11), ed. Facoltà teologica del Triveneto e Messaggero, Padova 2017, pp. 180, € 17,00.

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Paul Zulehner: pastorale, che cosa è urgente?

Intervista al teologo austriaco Paul Michael Zulehner, docente emerito di Teologia pastorale presso l’Università di Vienna, realizzata dalla rivistaPublik-Forum e pubblicata sul fascicolo n° 1 del 12 gennaio 2018. La riprendiamo nella traduzione italiana del sito web Fine Settimana.

zulehner

– Professor Zulehner, molte comunità si lamentano della costituzione di unità pastorali sempre più ampie e della perdita di vitalità della vita ecclesiale. Guardano al futuro con pessimismo. Che cosa è urgente in questa situazione?

Molte comunità continuano ad avere la speranza e la pretesa di raggiungere tutti i battezzati. Questo è chiedere troppo. Oggi la religione, come ha sempre sottolineato il sociologo delle religioni ora deceduto Peter L. Berger, non è più un destino, ma una libera decisione. Di questo, molti cristiani non sono ancora consapevoli. Valutano il presente, quindi le chiese che diventano sempre più vuote, con uno strumento del passato, quando non si aveva alcuna possibilità di sottrarsi all’andare in chiesa. Questo è fatale. Perché crea la sensazione di una decadenza permanente e inarrestabile. Io consiglierei alle comunità parrocchiali di rovesciare i termini: cominciate a contare da zero! Cercate di darvi da fare per avere partecipanti interessanti, come fanno anche molte altre organizzazioni! E se tutto funziona e le cose sono fatte bene, constaterete che forse numericamente i cristiani saranno di meno, ma che la qualità spirituale, la sostanza, non ne avrà sofferto. Direi che ci avviciniamo alla normalità biblica.

– Però non bisogna ignorare il fatto che gli ambienti interessati si riducono e che i fedeli diventano sempre più vecchi. Tutti gli studi mostrano che le comunità non raggiungono i giovani e i creativi, sia perché questa generazione è oberata dai problemi del lavoro, sia perché per queste persone la religione non è un tema che li interessi.

Dobbiamo tener presenti due aspetti. Le comunità hanno fatto a lungo affidamento sul fatto di non dover fare niente, convinti che la Chiesa rimane una ovvietà socioculturale in cui si cresce. Quest’epoca è passata. I canali della trasmissione non funzionano più nemmeno nella famiglia. Adesso si tratta di conquistare ogni generazione. Se la comunità tradizionale ce la farà, non lo sappiamo. Forse occorrono nuove aggregazioni o comunità spirituali che già adesso costituiscono una concorrenza alle comunità interne alla Chiesa e che si rivolgono a quella parte di gioventù che ha tendenze conservatrici. Dall’altro lato ci sono però anche comunità che ai giovani danno la sensazione che sia sensato e arricchente impegnarsi nell’ambito della Chiesa. Conosco comunità in cui dei giovani si impegnano in un campo di rifugiati che sta dietro la chiesa, e imparano a conoscere il vangelo attraverso il servizio (l’agire diaconale). La mia esperienza è che il contatto con la Chiesa non passa dalla conoscenza del catechismo, ma da un agire concreto e diaconico, in progetti chiari e definiti, con responsabilità personale e riconoscimento. Questa è la strada che papa Francesco desidera: immergersi tra i poveri, per riemergere in Dio. Prima viene l’azione, poi la riflessione. Prima ci vuole l’esperienza di come ci si sente a vivere il cuore del vangelo, a vivere un amore solidale per il prossimo.

– Però l’entusiasmo che promana da Francesco non arriva alla base. Come si spiega questo?

Non sono d’accordo. L’iniziativa di solidarietà www.pro-pope-francis.com avviata da me e da Tomas Halik incontra un’eco potente. Anche al di là dei confini della Chiesa, molte persone trovano che Francesco ponga le giuste questioni. Che in questo modo Francesco non si faccia solo degli amici, è evidente. Però le tensioni sono per me la prova migliore che la Chiesa è viva, che non abbiamo completamente addormentato lo spirito del concilio.

– Tuttavia la Chiesa cattolica continua ad avere un’immagine catastrofica.

Purtroppo è vero. Gli scandali legati agli abusi pesano ancora molto su di noi. A ciò si aggiunge il fatto che, a partire dagli anni del Sessantotto, c’è una critica – a volte giustificata, a volte esagerata – alle istituzioni, di cui non soffre solo la Chiesa. Ma io credo che oggi siamo ad un punto di svolta e che viviamo una leggera ri-istituzionalizzazione. Proprio nell’avanguardia scientifica osservo un nuovo interesse a occuparsi del vangelo anche sul piano intellettuale. C’è la tendenza a riflettere e a ragionare su argomenti religiosi. Se le istituzioni non sottraggono libertà, ma, al contrario, arrivano perfino a renderla possibile, allora possono tornare ad attrarre in una maniera del tutto sorprendente.

– A quale libertà pensa concretamente?

Alla libertà di parlare, di pensare, di discutere, di impegnarsi in progetti di solidarietà o di nuotare contro la corrente populistica di destra. Se la Chiesa offre questo spazio di esperienza, può esercitare attrazione anche sui giovani. Per questo penso che la Chiesa in questo momento dovrebbe investire in speranza, creare ovunque spazi di movimento e avviare progetti di diaconia, cioè di servizio. E in questo dovrebbe collaborare con tutti gli uomini di buona volontà.

– Un progetto che sta a cuore a Francesco è il rapporto solidale e caloroso con i rifugiati. Ma i vescovi in Polonia o in Ungheria sono molto tentennanti a seguirlo in questo. Si nota che la Chiesa cattolica in Europa non parla ad una sola voce, ma che quasi ovunque i vescovi rappresentano le posizioni dei loro governi.

Anche a me dà molto fastidio che ad un vescovo in occasione della sua consacrazione venga posto il vangelo sul capo, e che poi lui si attenga alle dichiarazione del governo invece che alle Scritture. Allora gli si dovrebbe togliere l’incarico e consigliargli di diventare dipendente dello Stato. Dall’altro lato devo semplicemente tener presente che l’Europa e anche la Chiesa cattolica su questo argomento sono spaccate. Ma se riuscissimo a mettere in dialogo le diverse posizioni che abbiamo nella Chiesa, sarebbe una benedizione per la politica. Perché alla lunga il populismo porta in un vicolo cieco. Vorrei una Chiesa in cui i legami con il vangelo fossero più forti della “realpolitik” e delle convinzioni economico-politiche. Che – indipendentemente dalle convinzioni politiche – ci si senta legati al mistero che chiamiamo Dio. Sarebbe molto di guadagnato se i cristiani, in tutti i campi politici in cui operano, fossero coloro che cercano di costruire ponti verso l’altro a servizio dell’unità. Questo sarebbe il compito della Chiesa nelle società con forti polarizzazioni.

– Ma lo stesso Francesco si sente ripetere il rimprovero di essere un populista e di essere più un predicatore per il popolo che un teologo. Che cosa ne dice?

Francesco ha purificato la cultura della pastorale secondo l’insegnamento di Gesù. Ho descritto questa svolta nel mio nuovo libro: dal peccato alla ferita. Dal tribunale all’ospedale (da campo). Dalla legge al volto. Dall’ideologo al pastore. Dal predicare morale al curare e guarire.

– La pretesa che la Chiesa possa curare e guarire, non è audace?

Ma è basata sulla convinzione che la chiesa non è un’istituzione di insegnamento morale, ma che il suo impegno si esprime in una pastorale di cura, terapeutica. Le radici partono da Kierkegaard e si estendono fino al presente, agli approcci di Eugen Biser o di Eugen Drewermann. Francesco porta avanti questa teologia coerentemente. E così come Gesù si è attirato l’ira dei legalisti, adesso i legalisti nella Chiesa lo vorrebbero bruciare come eretico sul rogo.

– A proposito di morale: i critici rimproverano al papa che lui moralizza molto. Contro l’economia, ad esempio, della cui legittimità lui capisce poco.

In Laudato si’ Francesco ha formulato chiari imperativi morali. In questo però si basa sulle conoscenze di ricercatori ambientali e di etici dell’economia. Naturalmente Francesco non è contro la morale. Ma ciò che è folle è che gli si rimproveri di rappresentare la morale gesuana. Ognuno sa che la paura dell’inferno e la minaccia del giudizio non hanno mai cambiato nessuno in meglio, ma che per questo è necessario uno spazio di fiducia e di misericordia.

– E questo spazio di cura, di guarigione, secondo Francesco deve essere la parrocchia con il suo prete. Non è una pretesa eccessiva di fronte alle moltissime differenze nel mondo?

Naturalmente non può guarire tutto. Penso che il fatto che consideri la parrocchia il luogo dei rituali di guarigione si spiega con la biografia di Francesco. Perciò lui dice: un confessionale non deve essere una camera di tortura. Lo tradurrei così: se qualcuno si confessa, deve essere consolato e rafforzato in modo che ne derivi una consapevolezza di esser accettato da Dio nel proprio essere peccatore. In questo bisogna certo fare attenzione a non cadere nella trappola dell’infantilizzazione, se Francesco parla così liberamente di pastore e di gregge e di Chiesa come madre. Ma se si attribuisce alla Chiesa intera questo ruolo di pastore, nel senso che tutti i cristiani sono chiamati ad occuparsi dei deboli e degli emarginati, allora il quadro torna a ricomporsi.

– Quasi 70.000 cattolici hanno sottoscritto l’iniziativa di solidarietà avviata da lei e da Tomas Halik. E ora come procederete?

Vogliamo raccogliere interessanti proposte sul futuro della Chiesa da tutti i continenti. Fino al 1° marzo i cristiani di tutti i continenti devono riflettere su queste domande: quali sono le sfide della Chiesa universale nel vostro continente? In che cosa la Chiesa può contribuire a che l’umanità affronti meglio queste sfide? Come dovrebbe cambiare e riformarsi la Chiesa per poter dare il suo contributo? Il mio desiderio sarebbe che si producesse possibilmente un documento tematico per continente. Sarebbe anche un sostegno per il progetto interculturale di decentralizzazione che il papa porta avanti. Ma non devono parteciparvi solo gli esperti e le esperte. A metà gennaio ci sarà anche un questionario online in cui sono poste domande a tutti i sostenitori.

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Il capolavoro “Dei Verbum”

L’importante costituzione dogmatica conciliare Dei Verbum ha segnato una pietra miliare nel cammino della Chiesa in rapporto al suo fondamento immutabile, la persona e la parola di Gesù di Nazaret, vero uomo e Figlio di Dio, Verbo incarnato e rivelatore del Padre.

La manifestazione del Padre in Gesù e il suo dialogo con gli uomini, come con amici, ha una lunga storia, iniziata con la creazione e l’elezione del popolo ebraico a testimone dell’unicità e della santità del suo nome.

L’attestazione della vita credente del popolo di Israele e della comunità cristiana avviene nella sacra Scrittura, in stretta congiunzione con la Tradizione vivente di tutta la Chiesa – guidata dal magistero – nel suo pensare, celebrare, pregare, con tutta se stessa.

Il lunghissimo e problematico iter del documento conciliare è ben studiato dalle sue origini fino al testo finale, promulgato l’8 dicembre del 1965 e poi analizzato capitolo per capitolo.

Massimo Epis – docente di teologia fondamentale e preside alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, membro del consiglio direttivo dell’Associazione teologica italiana – analizza (pp. 13-92) il percorso compiuto dal Dei Verbum, studiandone dapprima il suo fondo storico-teologico:

  • I preparativi del Concilio comprendono:
  • la fase ante preparatoria, con vari vota e monita, insieme al votum del Pontificio Istituto Biblico (24/4/1960);
  • la fase preparatoria, con la presentazione dello schema De fontibus, quello De deposito fideie infine quello De verbo Dei;
  • alla vigilia del concilio appaiono anche alcuni “testi ombra”: uno a cura di K. Rahner e di J. Ratzinger e un altro, approntato dal Segretariato per l’unità dei cristiani.

2) I lavori conciliari sono esposti seguendo la seguente trafila:

– la settimana del De fontibus, poi affossato;

– la costituzione della Commissione mista;

– la revisione da parte della (sotto)commissione dottrinale;

– verso l’approvazione della Dei Verbum.

Nel c. 3 Epis espone le tematiche fondamentali della DV attraverso la citazione di espressioni decisive a cui si pervenne dopo lungo dibattito:

1) La rivelazione come evento:

– dalle “fonti” alla Fons;

Opus salutare consummat;

Tamquam amicos. De momento fidei in opere salutis;

– la libertà religiosa e l’ordine morale;

– pastorale perché dottrinale, e viceversa.

2) Il primato della Scrittura nel dinamismo della tradizione:

– Dal punto di vista della scaturigo;

– Al di là della contrapposizione e della giustapposizione.

3) La Parola e la Scrittura:

– i metodi e la verità;

– tutta di Dio e tutta dell’uomo;

– l’uno e l’altro Testamento;

– una teologia della Bibbia.

Epis conclude il suo contributo con la bibliografia (pp. 87-92).

Vincenzo Di Pilato (pp. 93-246) – docente di teologia fondamentale all’Istituto teologico Regina Apuliae di Molfetta e alla Facoltà teologica pugliese – riporta il testo del Proemio di DV e dei cc. I-III (La rivelazione; La trasmissione della rivelazione; L’ispirazione divina della sacra Scrittura e la sua interpretazione).

L’introduzione e il commento dei vari capitoli propongono anche l’illustrazione tramite, delle tabelle, delle variazioni che il testo subì nei vari passaggi della sua elaborazione (Schemi: 24/5/1963; 14/7/1964; 29/11/1964; Dei Verbum 18/11/1965). Un sussidio davvero prezioso. La bibliografia è posta alla conclusione di ogni capitolo.

Luca Mazzinghi (pp. 247-300) – presidente dell’Associazione biblica italiana, docente ordinario di sacra Scrittura presso la Gregoriana e professore invitato presso il Pontificio Istituto Biblico – introduce e commenta i cc. IV-VI della DV:

  1. a) L’Antico Testamento,
  2. b) Il Nuovo Testamento,
  3. c) La sacra Scrittura nella vita della Chiesa.

I profili bio-bibliografici (pp. 301-304) precedono l’Indice dei nomi (pp. 305-310).

L’intento particolare perseguito nella collana Commentario ai documenti del Vaticano II sono ben esposti dai curatori Serena Noceti – docente stabile ordinario di teologia sistematica presso l’Istituto superiore di scienze religiose “I. Galantini” di Firenze – e Roberto Repole, docente di teologia sistematica presso la sezione di Torino della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale. Essi si avvarranno della competenza di una trentina di autori specialisti dei vari campi affrontati nei documenti conciliari.

Quest’opera, di alto livello scientifico, si pone come volume di assoluto prestigio nella collana che le EDB hanno dedicato al Commentario ai documenti del Vaticano II nel 50° della sua conclusione.

La delicatezza dei lavori conciliari sulla DV, testimoniata dal laborioso travaglio a cui i testi furono sottoposti, evidenzia la decisività del testo conciliare sulla Divina rivelazione, nella sua attestazione biblica, in rapporto alla Tradizione viva, al magistero e alla vita della Chiesa nel suo complesso.

La DV segna un passaggio epocale nella comprensione della rivelazione, nel primato dell’origine divina della rivelazione, del rapporto dinamico con la Tradizione viva e dinamica che va sempre approfondita nel suo contenuto e nella sua ermeneutica, lo stretto collegamento tra AT e NT e pari dignità dell’AT, la centralità della Scrittura nella vita spirituale e teologica della Chiesa, l’apertura competa allo studio storico-critico dei testi biblici con la massima attenzione ai generi letterari e ai vari modi di esprimersi delle culture del tempo.

La piena rivalutazione degli autori biblici come veri e propri autori – senza dover prendere posizione sulla loro precisa identificazione, magari con un pronunciamento magisteriale impegnativo! – dà campo aperto agli studi biblici che si avvalgano anche di altri metodi e approcci.

Il tono del documento è teologico-pastorale, non didattico, scolastico e freddo come nei testi preparatori.

Il cammino post-conciliare vedrà l’approfondimento della comprensione degli scritti biblici all’interno della vita ecclesiale e in rapporto con la tradizione ebraica e la sua particolare ermeneutica, venerabile per profondità di approccio e sensibilità letteraria, teologica e spirituale.

Serena NocetiRoberto Repole (a cura), Commentario ai documenti del Vaticano II. 5. Dei Verbum. Testi di Massimo Epis – Vincenzo Di Pilato – Luca Mazzinghi, EDB, Bologna 2017, pp. 320, € 43,00. 9788810412015

Trento: 50 anni di Commissione ecumenica

«Voi, più di ogni altro!». Con queste parole papa Paolo VI affidava ai fedeli della diocesi di Trento, giunti a Roma per l’udienza dell’8 marzo 1964, uno speciale mandato ecumenico.

«Al tempo del Concilio la città di Trento, scelta per facilitare l’incontro, per far da ponte, per offrire l’abbraccio della riconciliazione e dell’amicizia, non ebbe questa gioia e questa gloria. Essa dovrà averne, come noi, come tutto il mondo cattolico, sempre il desiderio. Essa dovrà assurgere a simbolo di questo desiderio, oggi ancora, oggi più che mai, vivo, implorante, paziente, pregante. Essa dovrà con la fermezza della sua fede cattolica non costituire un confine, ma aprire una porta; non chiudere un dialogo, ma tenerlo aperto; non rinfacciare errori, ma ricercare virtù; non attendere chi da quattro secoli non è venuto, ma andarlo fraternamente a cercare».

Parole che hanno segnato l’inizio di un impegno perché la città di Trento e l’intera diocesi – forte anche della sua posizione geografica che storicamente ha sempre costituito un ponte naturale fra il mondo germanico e quello latino, ma negli anni dell’Impero austro-ungarico anche tra Est e Ovest, e quindi tra l’area cattolica, ortodossa e della Riforma – è stata in questi anni parte attiva nel cammino del dialogo ecumenico globale.

È a Trento, nel Duomo, già sede del Concilio, che nel 1974 si sono ritrovati cattolici e luterani, per la prima volta dopo la Riforma, a pregare insieme. È  sempre nello stesso Duomo che nel 1984 (7 ottobre) esponenti della Chiesa cattolica (guidati dal card. Cè, allora patriarca di Venezia e vicepresidente CEI, presente anche il card. Basil Hume arcivescovo di Westminster a Londra), ortodossa e delle Chiese riformate si sono radunati, attorno al Crocifisso testimone dello storico Concilio, per recitare il Credo – per la prima volta insieme dal XVI secolo! – e scambiarsi abbracci di pace. E ancora a Trento sono stati di casa tre pionieri del dialogo come i cardinali Franz König di Vienna e Paul Poupard e Walter Kasper del Pontificio Consiglio per l’unità. A Trento sono arrivati patriarchi ortodossi come Nikodim, metropolita di Leningrado o Alessio II di Mosca, ma delegazioni trentine in questi anni si sono portate in Russia, Bielorussia e Turchia (a Istambul più volte dal patriarca Bartolomeo I e prima da Demetrio cui nel 1981 avevano fatto dono delle reliquie dei figli di Cappadocia martiri in Trentino nel 997 e ora compatroni diocesani insieme a san Vigilio).
E questo grazie soprattutto alla lungimiranza pastorale (nel 1979 a Trento nasceva anche il Centro diocesano famiglia con uno specifico delegato) di un arcivescovo come Alessandro Maria Gottardi che già nel 1968 (25 gennaio) istituiva un’apposita Commissione ecumenica e l’affidava a don Dante Clauser, parroco di San Pietro a Trento e fin da quegli anni un prete di frontiera (più tardi aprirà un Centro di accoglienza per i senzatetto e poi immigrati).

Ricordare per guardare avanti

A 50 anni di distanza l’evento è stato ricordato solennemente sabato 21 gennaio presso il Vigilianum, il polo culturale della diocesi trentina alla presenza dell’arcivescovo Tisi e di alcuni membri di ieri e di oggi della Commissione. «Non un nostalgico amarcord, bensì uno sguardo in avanti» ha premesso l’attuale delegato, don Andrea Decarli (già assistente nazionale della FUCI). Ecco allora che la motivazione di fondo non può essere che la gratitudine per tutte quelle persone che in questi anni si sono spese nella promozione del dialogo. Sulla stessa lunghezza d’onda anche don Cristiano Bettega, il trentino che dal 2013 è direttore dell’Ufficio nazionale della CEI per l’Ecumenismo e il dialogo interreligioso, che, nato nel 1967, 50 anni fa balbettava solo le prime parole, ma che si è detto «orgoglioso di essere figlio della Chiesa di Trento, una comunità così aperta al dialogo e al confronto».
È  toccato ad Alessandro Martinelli – il laico che dal 1989 costituisce quasi l’emblema stesso dell’ecumenismo diocesano (avendo lavorato con i precedenti delegati, don Silvio Franch e don Antonio Sebastiani) – ripercorrere con 50 scatti mezzo secolo di ecumenismo targato Trento.

Senza dimenticare un prologo di fondamentale importanza: un intervento a Trento, nel 1963 presso la scuola diocesana Celestino Endrici del cardinale Agostino Bea che prefigurava un cammino ecumenico ineludibile e l’azione tenace dello storico trentino, mons. Iginio Rogger, che il 28 ottobre 1965 chiudeva ufficialmente la vicenda del piccolo Simonino (una leggenda metropolitana che raccontava dell’uccisione di un bambino ebraico, fino ad allora pure venerato come beato, nata in epoca di scontro fra religioni).

Segno dei tempi, di una società trentina, come del resto europea, ormai multietnica, multiculturale e multireligiosa, l’inserimento, a fianco del dialogo ecumenico, di quello interreligioso. «Oggi, forse, non abbiamo più bisogno di viaggi per incontrare altre culture e religioni, le abbiamo già qui fra noi», diceva Martinelli che aggiungeva «Oggi la sfida non è più quella di essere “tessitori di dialogo”, come per anni è stato definito il delegato Franch, bensì diventare “tracciatori di senso” in una società dove tutte le religioni hanno ancora qualcosa da offrire». Del resto è dal 2000 che è stato aperto un Centro buddista a Bosentino a pochi km dalla città e nel 2010 a Borgo Sacco la chiesa di Sant’Anna è stata ceduta alla comunità ortodossa che l’ha completamente trasformata per il culto orientale, ma nel 2001 è stato istituito il Tavolo delle Appartenenze Religiose e nel 2011 una festa ebraica è stata celebrata all’interno del giardino vescovile.

ecumenismo Trento

Trento, Lavanda dei piedi ecumenica (6.10.2017)

Cronaca di oggi è la reciproca lavanda dei piedi avvenuta nel duomo del Concilio lo scorso 6 ottobre in occasione delle celebrazioni per i 500 anni della Riforma nel corso di una preghiera ecumenica alla presenza dei 200 partecipanti al convegno «Che cosa ci ha lasciato Martin Lutero?», promosso congiuntamente dalla Chiesa evangelica luterana in Italia (CELI) e dall’Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso (UNEDI) della CEI. Protagonisti dell’atto dalla forte valenza altamente simbolica, l’arcivescovo Lauro Tisi, e il vescovo luterano Karl-Hinrich Manzke di Schaumburg-Lippe, responsabile della Chiesa evangelica luterana unita di Germania (VELKD) per le relazioni con la chiesa cattolica. «Lo spirito Santo è il dono di Dio che ci rende sorelle e fratelli nella fede, liberi e responsabili di fronte a Dio e al mondo», aveva dichiarato il vescovo Manzke.

Il racconto dei testimoni

Gianfranco Azzolini, membro della Comunità di San Valentino di Ala, il solo membro della Commissione iniziale, è stato il primo testimone chiamato a raccontare la sua esperienza: «Non capisco ancora perché il vescovo Gottardi abbia scelto uno come me, ma so anche che è stata Maria Vingiani (fondatrice nel 1966 del SAE, il Segretariato attività ecumeniche che successivamente si riuniva annualmente al Passo della Mendola) a fare il mio nome. Non ero competente, ma avevo la teologia di un “povero cristiano”».

«Le cose, talvolta, nascono del tutto casualmente» spiegava Paolo Rasera, già dirigente nella scuola trentina, rievocando come tutto era partito da un’idea del suo cappellano, don Valerio Piffer, di accompagnare negli anni ’70 un gruppo di giovani della parrocchia a Taizé e, al loro rientro, il parroco del Santissimo, don Alfredo Bertolini, acconsente ad affidare a quei giovani la preghiera settimanale nella cripta sotto l’altar maggiore. Il vescovo Gottardi, appresa l’iniziativa, invitava il gruppo – fra essi anche Fabio Garbari ora missionario gesuita – ad andare in periferia per aiutare la preghiera sul territorio (a Sanzeno nel frattempo era nato il Gruppo Samuele). A Taizè quei giovani avevano incontrato, estate dopo estate, pionieri del dialogo come il vescovo di Recife, il brasiliano dom Hélder Pessoa Câmara, ma soprattutto hanno imparato uno stile di vita, come ricordava il prof. Rasera in riferimento anche ad uno dei luoghi, come la scuola, dove è necessario aprire un dialogo e, sempre più spesso, rompere i muri fra le generazioni: «vivere con la facilità di incontrarsi e ascoltare».

È  questa la vera sfida di oggi, l’ecumenismo del quotidiano, come l’ha definito Maria Teresa Pontara Pederiva – la prima presidente laica, dal 1986, di un organismo diocesano che ha sottolineato come il discorso ecumenico si sia inserito in quella straordinaria esperienza umana e culturale che era il Centro Bernardo Clesio, luogo di aggregazione di tanti giovani “pensosi” – ricordando le parole di don Silvio Franch: «L’ecumenismo della gente precede i vertici». Perché, a ben guardare, al di là dei Convegni e delle discussioni a livello alto che fanno parte del cammino della Chiesa di Trento (come gli Incontri che si sono tenuti a Riva del Garda, il III Incontro ecumenico europeo del 1984 o la Conferenza Mondiale delle Religioni per la Pace) il metodo, se si può chiamare così, avviato dal vescovo Gottardi con la costituzione di un’apposita Commissione e di uno specifico delegato si colloca sulla linea che oggi ci indica il Papa: l’instaurarsi di una fitta rete di relazioni, di incontri personali, visite reciproche e soprattutto un’azione decisa di promozione al dialogo è andata avanti negli anni e continua ancora oggi.

Così la presenza del patriarca Bartolomeo I all’insediamento di papa Bergoglio (1° volta dallo scisma d’Oriente!), l’incontro a Cuba con il patriarca di tutte le Russie Kirill, la visita a Lund in Svezia … rappresentano quasi uno specchio a livello alto dei tanti incontri, visite, gemellaggi che la diocesi di Trento ha registrato in questi anni («tutt’altro che a livello “rasoterra”»).

L’ecumenismo del quotidiano

Francesco si esprimeva così in un’udienza del mercoledì (8 ottobre 2014), ma lo stesso pensiero l’ha ribadito anche altrove (oltre che messo in pratica): «In tutte le comunità ci sono bravi teologi: che loro discutano, che loro cerchino la verità teologica perché è un dovere, ma noi camminiamo insieme, pregando l’uno per l’altro e facendo opere di carità. E così facciamo la comunione in cammino. Questo si chiama ecumenismo spirituale: camminare il cammino della vita tutti insieme nella nostra fede, in Gesù Cristo il Signore».

Le Costituzioni del Sinodo diocesano di Trento (1985) recitano: «La cura di ristabilire l’unità riguarda tutta la Chiesa, e in essa ognuno secondo le proprie capacità» (N. 1,31). «È  questa la lezione che ci viene dal nostro cammino ecumenico diocesano: ciascuno faccia la sua parte. Perché sono soprattutto le relazioni, i contatti personali che diventano indispensabili nella nostra società – diceva Pontara Pederiva da genitore, insegnante e giornalista –  occorre non temere il dialogo perché è solo ascoltando racconti di altri, con sensibilità diverse, culture divere e religioni diverse, è possibile sentirci figli di un unico Padre. E allora per ciascuno di noi sarà lo straordinario che diventa ordinario. Non tutti sono chiamati a scalare una montagna. C’è chi ha collezionato gli Ottomila e chi fatica a fare una passeggiata … Chi tra i monti ci vive non teme di mettersi in marcia, di primo mattino, con passo regolare e paziente, valutando le proprie forze e procedendo con umiltà. Nel linguaggio della montagna gli strapiombi si chiamano pareti, come dire muri, invalicabili. Eppure non c’è monte che non venga prima o poi spianato dalle forze della natura (le nostre belle Dolomiti scompariranno tra qualche migliaio di anni), come non c’è muro che non possa venire abbattuto, vetta che non sia stata raggiunta. Unità che non possa essere ritrovata.

Papa Francesco ci invita a superare: “il muro dell’indifferenza” che impedisce di vedere quanti ci vivono accanto, e molto spesso soffrono più di noi. Alcuni costruiscono muri, noi cerchiamo di superare quelli che già esistono».

E poi un’immagine per indicare il cammino che continua: i giorni della vita scorrono come l’acqua di un torrente di montagna che precipita a valle. L’acqua non ha tempo di voltarsi indietro, ma il ghiacciaio che l’ha generata, costituisce una solida sicurezza. Il presente è l’unico istante che ci è concesso di vivere, in ozio o in servizio, e così aggiungere giorni ai giorni decidendo se di vita o di morte

Un ambito che sappiamo tutti essere condiviso a livello ecumenico (anzi che i nostri fratelli ortodossi hanno sviluppato ben prima di noi, a partire dalla 1° Assemblea ecumenica di Basilea del 1989) è la custodia del creato e l’ha ribadito papa Francesco in questi giorni incontrando il popolo dell’Amazzonia peruviana: viviamo nella casa preparata dallo stesso Padre per tutta l’umanità eppure siamo i principali responsabili del cambiamento climatico e del degrado del pianeta. È  tutto nostro il saccheggio delle sue risorse, dimenticando la loro destinazione universale. Consumiamo e sprechiamo cose, eventi, persone, cavalchiamo con indifferenza l’onda di ogni riflessione e autocritica, adducendo ogni alibi che la fantasia ci suggerisce.

L’economista Becchetti ci ricorda che noi soli possiamo sciogliere le catene che ci han resi schiavi degli insostenibili stili di vita, modelli di produzione e schemi di consumo che il nostro mondo ha sviluppato e invertire la rotta, abbandonando la maschera triste dell’Homo oeconomicus.

Ecco allora l’attraversare i giorni con la sapienza di riconoscere e abitare il limite, vivere con responsabilità nel creato – che ci appartiene, come a tutti i fratelli – attingendo solo quanto basta alle nostre necessità e recuperando come famiglie la libertà di scelte di sobrietà. Far pace con il creato, preoccuparsi delle sorti del pianeta e dei suoi abitanti: guardare il cielo e percepire la terra. Riscoprire il senso dell’”abitare insieme”, allontanando altre catene, quelle del nostro io.

È  ancora quell’ecumenismo delle relazioni e della solidarietà, prima ancora delle discussioni teologiche, cui ci invitano i leader delle chiese cattolica (CCEE) e riformate (KEK) nel loro messaggio per la Settimana 2018: «L’unità si fortifica attraverso: la solidarietà con i nostri fratelli cristiani che vivono in condizioni di indigenza, di solitudine e di emarginazione; la solidarietà con i nostri fratelli cristiani perseguitati per la loro fede, in particolare in Medio Oriente, in Africa e in Asia; la solidarietà con i nostri vicini che giungono alle porte dell’Europa».

«Riportare Dio nel dibattito pubblico»

Su questa linea l’appello dell’arcivescovo Lauro (che ha definito la Preghiera in stile Taizé e i viaggi in Francia «la realtà ecclesiale oggi a Trento più importante»): un invito a ripartire, a lasciarci interrogare dai racconti della mattinata. Ma, secondo il pastore di Trento, nel contesto attuale si può dire che «siamo all’anno Zero» in quanto «sia il tema ecumenico che il tema di Dio sono del tutto assenti dal dibattito pubblico» e tutti sono chiamati a modificare questa realtà, anche perché «il mondo giovanile fatica non poco a percepire la questione ecumenica». «Se Dio potrà tornare nel dibattito pubblico – dichiarava il vescovo di Trento ricordando il momento dell’ordinazione episcopale con l’imposizione del Vangelo – questo non sarà certo per merito di qualche illuminato teologo, ma per la testimonianza di quanti vivono la Parola di Dio».

Annunciando un impulso sempre maggiore per la diffusione di Gruppi della Parola, sia a livello di giovani che di adulti, Tisi riconosceva che «oggi la partita ecumenica si gioca con quella dell’accoglienza, perché le due questioni non possono essere separate».

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