Francia. Arbitro di calcio sgambetta un giocatore e lo espelle

 

L'arbitro Tony Chapron tenta dà un calcio al difensore del Nantes (Ansa)

L’arbitro Tony Chapron tenta dà un calcio al difensore del Nantes (Ansa)

L’abitro francese Tony Chapron, 45 anni, domenica sera è stato protagonista di un fatto che ha dell’incredibile. Durante il match tra Nantes e Paris Saint-Germain (Psg), quest’ultimo di gran lunga in testa nel campionato di Ligue 1, la Seria A transalpina, è stato travolto involontariamente dal difensore brasiliano Diego Carlos (Nantes). L’arbitro, ancora a terra, ha tentato di dare un calcio, simile a uno sgambetto, al difensore, e poi lo ha espulso comminandogli un secondo cartellino giallo.

Ancor prima della fine della partita, la scena ha innescato un’ondata di reazioni ben oltre la Francia, fra indignazione e ilarità. Dopo il match vinto in trasferta dal Psg (1-0), Tony Chapron è stato sospeso e dovrà spiegarsi davanti alla commissione disciplinare della federazione professionistica francese.

L'arbitro Tony Chapron espelle il difensore del Nantes Diego Carlos (Ansa)

L’arbitro Tony Chapron espelle il difensore del Nantes Diego Carlos (Ansa)

Ma l’arbitro si è già scusato, definendo il proprio gesto «maldestro» e «inappropriato». In un comunicato, Chapron ha tentato di giustificare la propria azione in questi termini: «In occasione del match Nantes-Psg, sono stato urtato da Diego Carlos, giocatore del Nantes. Al momento di quest’urto ho sentito un vivo dolore su una ferita recente. Con un cattivo riflesso, ho steso una gamba verso il giocatore».

Senza precedenti, l’incidente ha inferto un colpo all’immagine del calcio transalpino. La federazione ha annunciato che Chapron non dirigerà il prossimo match che gli era stato assegnato. Spetterà adesso alla commissione disciplinare giovedì il compito di emettere eventuali sanzioni.

Dopo l’incontro, l’arbitro si era difeso definendo involontario il tentativo di sgambetto, ma le immagini sembrano contraddire questa versione. L’espulsione di Carlos, frutto di un secondo cartellino giallo, è stata annullata. Il difensore brasiliano potrà dunque giocare la prossima partita contro Tolosa.

Chapron ha invece avuto almeno la consolazione di essere difeso dal sindacato degli arbitri, che ha parlato di «cattivo riflesso» e di «gesto inappropriato», ma considerando che il calcio non aveva un «carattere violento» e sottolineando pure che l’arbitro si è rapidamente scusato dopo aver preso coscienza dell’errore.

da Avvenire

Il caso. Weisz, l’allenatore nella Shoah

Un disegno di Matteo Matteucci per il graphic novel "Árpád Wisz e il littoriale"

Un disegno di Matteo Matteucci per il graphic novel “Árpád Wisz e il littoriale”

La Storia spesso, anche involontariamente, fa passaggi imprecisi, finte di corpo, mettendo in fuorigioco le storie dei grandi uomini: ma la memoria di cuoio no, e così, con il tempo, è andata a strappare dall’oblio la vicenda umana e sportiva di Árpád Weisz. Un antesignano di tutti i presunti “special one” della panchina, l’ungherese di Solt, classe 1896, ex calciatore (ala sinistra) con il bernoccolo del condottiero da bordo campo, la cui cifra peculiare era la «modestia». Materia di studio nel suo manuale Il giuoco del calcio. Un testo epocale, scritto da un autentico stratega e fine ricercatore della tattica calcistica. Un prezioso vademecum adottato, ai tempi, da tutti i tecnici in carriera e dagli aspiranti allenatori. Fu pubblicato nel 1930 (dall’editore Corticelli), stagione in cui allenava l’Inter e con la fascistizzazione, anche del calcio, il suo nome divenne Veisz e quello del club Ambrosiana. Il manuale lo scrisse a quattro mani con Aldo Molinari, il “papà” dei direttori sportivi, figura professionale creata ad hoc dal presidente dell’Ambrosiana-Inter Oreste Simonotti. Weisz invece vanta un record ancora insuperato: è stato il tecnico più giovane a vincere lo scudetto in Serie A.

Il primo titolo lo conquistò nella stagione nerazzurra 1929-’30, quando aveva appena 34 anni. Aveva invece vent’anni il suo “Peppino”, Giuseppe Meazza quando lo fece debuttare 17enne pronosticandogli un futuro da «fuoriclasse». Meazza era «il “folbèr” allo stato puro» secondo lo scriba massimo di calcio Gianni Brera che aveva conosciuto e apprezzato Weisz dai racconti del suo allievo prediletto. «Ricordo ancora la sua pazienza durante i lunghi allenamenti – raccontava Meazza – . Orologio alla mano, Weisz alla fine di ogni corsa mi sorrideva: “Bravo il mio Peppino, però puoi andare più veloce. Puoi fare meglio. Puoi riprovare un’altra volta?”». In Il giuoco del calcio – ora ripubblicato (Minerva Editore. Pagine 222. Euro 18,00), si trovano i capitoli fondamentali in cui sembra di riascoltare la voce del mago ungherese che didattico invita alla «Velocità» e agli «Esercizi che servono a migliorare il fiato». Applicazione, unita a una tecnica fuori dal comune fecero del giovane Meazza un bomber da 31 gol in 33 partite in quella prima cavalcata tricolore di Weisz che poi sarebbe andato a fare le fortune del Bologna. Con lui i rossoblù divennero la squadra irresistibile che «tremare il mondo fa».

Due titoli di fila, dal 1935 al ’37, prima della “tragica sconfitta” che però avvenne fuori dal campo di gioco. Le oltraggiose leggi razziali del 1938 costrinsero Árpád e la sua famiglia, di religione ebraica, alla fuga. L’ebreo er- rante e non più il grande stratega del football riparò a Parigi e da lì nell’Olanda di Anna Frank con sua moglie Elena e i figli Roberto e Clara. Nei Paesi Bassi sembrava aver trovato il giusto riparo dalla follia nazista. Weisz con l’assist di una serenità apparente, trovò il tempo di dedicarsi ancora al calcio allenando la squadra di Dordrecht, il paese che ospitava la sua famiglia. Salvò il piccolo club dalla retrocessione, dando spettacolo e lezioni di calcio persino al blasonato Ajax. Ma lui e i suoi cari non riuscirono a salvarsi dalla deportazione. L’uomo che predicava in anticipo sui tempi la necessità del lavoro del «centromediano metodista» e della fuga sulle fasce da parte dei terzini, un giorno dell’ottobre del ’42 si sentì braccato. «Pazienza e rispetto», i dogmi di una vita faticarono a restare in piedi dopo che venne diviso dalla sua famiglia. Elena e i piccoli Roberto (12 anni) e Clara (8) vennero subito annientati nella camera a gas del campo di concentramento di Auschwitz. Weisz venne spedito in un campo di lavoro nell’Alta Slesia. In quell’ottobre del ’42, un altro suo discepolo, il terzino del Bologna Mario “Rino” Pagotto, venne arruolato come alpino e l’8 settembre del ’43 fatto prigioniero dalle SS. Il buon Rino cuore rossoblù venne rinchiuso nel campo di Hohenstein (Prussia dell’Est).

«Lì passarono 650mila prigionieri (soldati francesi, belgi, serbi, sovietici e italiani), e 55 mila di questi vennero bruciati in delle pire all’interno del cimitero di Sudwa, non lontano dal campo», ricordava il prigioniero “DA8659” («nemmeno cento numeri più dello dello scrittore Rigoni Stern, prigioniero anche lui»), che da Hohenstein fu trasferito al campo di lavoro di Bialystok, in Polonia. Pagotto, la cui storia si può leggere nel libro di Giuliano MusiUn calcio anche alla morte (Minerva) amava ricordare il primo monito del suo mister Weisz quando dal Pordenone arrivò nel grande Bologna: «Osare in campo è sempre meglio che trattenersi». Rino il terzino metodista dello scudetto del ’36 (poi ne avrebbe vinti altri due nella stagione 1938-’39 e 1940-’41) osò anche sul campo di Cernauti. L’ultima prigione in cui come “un Weisz” si improvvisò calciatore- allenatore di “Quelli di Cernauti”, la squadra con la quale a Sluzk (nei pressi di Minsk) «osò » sfidare gli undici messi in campo dell’Armata Rossa, ridicolizzandoli con un quasi cappotto, 6-2. Scene da fuga per la vittoria. «Noi nel lager ad ogni partita ci giocavamo davvero la vita», disse Pagotto che poté festeggiare la sua liberazione «il 18 ottobre del 1945». Tornò ad abbracciare la Giuseppina e i compagni del suo Bologna con i quali giocò ancora appendendo gli scarpini al chiodo nel 1948. Ma fino all’ultimo (è morto nell’agosto del ’92) di tutte le sfide, Rino ricordava quelle di cui fu testimone anche Primo Levi (ne I sommersi e i salvati) disputate nei campi dei lager nei «giorni in cui l’uomo era divenuto cosa agli occhi degli uomini».

A Weisz, il vero manuale vivente del calcio, l’esistenza venne invece spezzata ad Auschwitz, il 31 gennaio 1944, nelle stesse camere a gas dove erano spirati i suoi tre amori. C’è voluto del tempo, e tutta la passione di Matteo Marani (autore di Dallo scudetto ad Auschwitz: vita e morte di Arpad Weisz, allenatore ebreo per riportare alla luce la straordinaria figura del tecnico ungherese vittima della Shoah. L’uomo verticale Árpád , il Maestro che il suo pupillo Peppino Meazza non aveva mai dimenticato: «Gli volevo davvero bene e il giorno che mi comunicarono la sua morte, provai lo stesso dolore di chi perde un padre».

da Avvenire

Il Vangelo di Domenica 21 Gennaio 2018. E una notizia percorse la Galilea: un altro mondo è possibile

III Domenica – Tempo ordinario
Anno B

Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il Vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo». Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.

In poche righe, un incalzare di avvenimenti: Giovanni arrestato, Gesù che ne prende il testimone, la Parola che non si lascia imprigionare, ancora Gesù che cammina e strade, lago, barche; le prime parole e i primi discepoli. Siamo al momento fresco, sorgivo del Vangelo.
Gesù andò nella Galilea, proclamando il Vangelo di Dio. La prima caratteristica che Marco riferisce è quella di un uomo raggiunto da una forza che lo obbliga a partire, a lasciare casa, famiglia, clan, paese, tutto. Il primo atto registrato dal Vangelo è l’itineranza di Gesù, la sua viandanza. E per casa la strada.
Proprio su questo andare e ancora andare, si innesta la seconda caratteristica: camminava e proclamava il Vangelo di Dio: Dio come una bella notizia.
Non era ovvio per niente. Non tutta la Bibbia è Vangelo, non tutta è bella e gioiosa notizia, alle volte è minaccia e giudizio, spesso è precetto e ingiunzione, ma ora la caratteristica nuova del rabbi itinerante è proprio il Vangelo: una parola che conforta la vita, Dio che libera e fa fiorire.
Gesù passa e dietro di lui resta una scia di pollini di primavera, un’eco in cui vibra il sapore bello e buono della gioia: è possibile la felicità, un’altra storia, un mondo altro sono possibili. E quell’uomo sembra conoscerne il segreto.
La bella notizia che inizia a correre per la Galilea è raccontata così: il regno di Dio (il mondo come Dio lo sogna) è vicino. Perché Dio si è avvicinato, ci ha raggiunto, è qui. Ma quale Dio? Gesù ne mostra il volto, da subito, con il suo primo agire: libera, guarisce, purifica, perdona, toglie barriere, ridona pienezza di relazione a tutti, anche a quelli marchiati dall’esclusione. Un Dio esperto in nascite, in vita.
Per accoglierlo, suggerisce Gesù, convertitevi e credete nel Vangelo. La conversione non come un’esigenza morale, ma un accorgersi che si è sbagliato strada, che la felicità è altrove. Convertitevi allora, giratevi verso la luce, come un girasole che si rimette ad ogni alba sui sentieri del sole, perché la luce è già qui.
Credete nel Vangelo, non semplicemente al Vangelo. Buttatevici dentro, con una fiducia che non darete più a nient’altro e a nessun altro.
Camminando lungo il mare di Galilea, Gesù vide… Cammina senza fretta e senza ansia; cammina sulla riva, in quel luogo intermedio tra terra e acqua, che sa di partenze e di approdi, e chiama quattro pescatori ad andare con lui. Vi faro diventare pescatori di uomini, vi farò pescatori di umanità, cercatori di tutto ciò che di più umano, bello, grande, luminoso ogni figlio di Dio porta nel cuore. Lo tirerete fuori dall’oscurità, come tesoro dissepolto dal campo, come neonato dalle acque materne.
(Letture: Giona 3,1-5.10; Salmo 24; 1 Corinzi 7,29-31; Marco 1,14-20)

da Avvenire

Diagnosi precoce. Un esame del sangue potrà individuare 8 diversi tumori

Prevenzione. Campioni di sangue per le analisi (Omnimilano)

Prevenzione. Campioni di sangue per le analisi (Omnimilano)

Da un semplice prelievo del sangue si potranno identificare otto tipi di tumore, alcuni dei quali con tassi di mortalità ancora elevatissimi. E’ quanto sperimentato con successo, sull’uomo, da un’équipe internazionale di ricercatori guidati dalla Johns Hopkins University di Baltimora (Usa).

Gli scienziati hanno provato il test, chiamato “Cancer Seek”, su 2.000 pazienti affetti da cancro all’ovaio, alfegato, allo stomaco, al pancreas, all’esofago, al colon, al polmone e al seno, non diffusi ad altri organi. La nuova analisi, come ha rivelato “Science”, ha rintracciato mutazioni in 16 geni su cui i tumori hanno “influenza” e su 8 proteine stimolate dalla stessa malattia, scovando i tumori con un’affidabilità che varia, a seconda dei casi, dal 69 al 98%. E a costi contenuti, visto che la spesa per il test si aggirerebbe intorno ai 400 euro.

Da questa ricerca potrebbe derivare un impatto enorme sulla mortalità del cancro – ha detto alla Bbc uno dei ricercatori, l’italiano Cristian Tomasetti, che ha sviluppato l’algoritmo matematico che distingue i pazienti sani da quelli malati – anche perché tra le neoplasie indagate ce ne sono alcune che non dispongono di programmi di screening precoce, come quello al pancreas, che dà luogo a pochi sintomi e per questo viene scoperto sempre in fase avanzata”. Tomasetti è fiducioso: “Se tutto procede per il verso giusto, tra due anni, da ora, il test potrà essere usato su tutti”. Lo studio, inoltre,” è importante perché dimostra quanto sia importanteinvestire sulla prevenzione. Se ne parla molto, ma si continua ad investire di più sulle terapie”.

Alla ricerca ha contribuito anche un ospedale italiano, il San Raffaele di Milano, con il suo Centro Pancreas, guidato dal professor Massimo Falconi, in questi giorni negli Usa. “Si apre una finestra nuova sul futuro degli screening per i tumori – afferma ad Avvenire il chirurgo Gianpaolo Balzano, dello staff di Falconi -: con un unico prelievo di sangue sarà possibile individuare la presenza di 8 tipi di tumore, tra cui il pancreas.

Il test è in grado di distinguere il tipo sulla base delle proteine specifiche e dei frammenti di Dna mutati, poi analizzati in un algoritmo che dà una diagnosi finale. Per quanto riguarda il pancreas – aggiunge – questo test potrebbe rappresentare un esame di screening da utilizzare soprattutto nelle persone a rischio, appartenenti a gruppi familiari o affetti da sindromi genetiche che predispongono alla malattia”.

avvenire

Scuola. Le 10 regole per lo smartphone in classe

Le 10 regole per lo smartphone in classe

Allora, smartphone a scuola sì o no? «L’uso dei dispositivi in aula, siano essi analogici o digitali, è promosso dai docenti, nei modi e nei tempi che ritengono più opportuni». È un’apertura – annunciata, ma non acritica – all’adozione degli strumenti di comunicazione più diffusi tra i giovani (e non solo) quella che il Ministero dell’Istruzione affida ora all’atteso decalogo «per l’uso dei dispositivi mobili a scuola» che viene presentato oggi dalla ministra Valeria Fedeli nel grande happening sulla scuola digitale «Futura » in corso a Bologna.

L’approccio della commissione ministeriale incaricata di mettere a fuoco i dieci criteri – che nei prossimi giorni arriveranno nelle scuole tramite circolare – è ispirato a una visione fiduciosa e positiva del rapporto tra i professori, gli studenti e la cultura oggi plasmata nei suoi linguaggi, stili e codici dall’enorme diffusione di tablet e telefoni interattivi. Non si tratta dunque di una sorta di resa a un fenomeno dilagante: «Il digitale nella didattica – si legge al settimo punto del documento, riprodotto integralmente qui sotto – è una scelta» e dunque «sta ai docenti introdurla e condurla in classe» per «educare alla cittadinanza digitale» (n.10) attraverso una «didattica» che «guida l’uso competente e responsabile» (n.5).

Ecco la parola chiave del decalogo: di responsabilità si parla ben quattro volte, insistendo sulla necessità sia di «insegnare a usare bene e integrare nella didattica i dispositivi» (n.2) sia di «regolamentare le modalità e i tempi dell’uso e del non uso» (n.8), promuovendo «l’autonomia» degli studenti (n.6). In altre parole, per gli esperti interpellati dal Ministero (massmediologi, pedagogisti, insegnanti, filosofi) la scuola non può chiamarsi fuori dal cambiamento in corso, che va ben oltre i soli smartphone e che deve affrontare come una sfida educativa «per il raggiungimento dei propri scopi», in modo anche da «sostenere» il suo stesso «rinnovamento».

Due idee forti meritano di essere evidenziate nel testo ministeriale: la consapevolezza che «è la didattica che guida l’uso competente e responsabile dei dispositivi» (n.5) e la sottolineatura – tutt’altro che scontata – della necessità che «l’alleanza educativa tra scuola e famiglia si estenda alle questioni relative all’uso dei dispositivi personali » (n.9). Per dar corpo a questa prospettiva di lavoro, che si limita a offrire criteri generali senza dettare regole operative, si rimanda all’autonomia degli istituti, ciascuno dei quali è chiamato ora ad adottare una propria «Politica di uso accettabile (Pua) delle tecnologie digitali». Significativa anche la parola d’ordine (inglese, sviluppata in contesto aziendale) scelta per i dieci punti: «Bring your own device » (Byod), con il verbo che sta a sottolineare l’idea non solo di ‘portare con sé’ ma anche di usare i dispositivi elettronici in modo utile e coerente con le finalità della scuola.

I dieci punti non esauriscono la proposta del Ministero sul terreno della cultura digitale: alle scuole arriveranno anche le ben più corpose linee guida che ampliano il ragionamento distillato nel decalogo e che a loro volta rimandano alla piattaforma online che sarà accessibile da lunedì, con materiali per la didattica, l’innovazione e l’uso a scuola di smartphone and friends.

La strada che il Miur ha scelto di imboccare va nella direzione opposta rispetto alla Francia, dove da pochi giorni il ministro dell’Istruzione Jean-Michel Blanquer ha introdotto il divieto di usare gli smartphone a scuola. Due risposte alternative al medesimo fenomeno: in Italia l’89,3% dei giovani usa i ‘telefoni intelligenti’, col primo apparecchio posseduto già a 8-9 anni. L’Italia punta sull’educazione a partire dalla convinzione che «proibire l’uso dei dispositivi a scuola non è la soluzione » (n.2). Chi avrà ragione?

Il decalogo

1 Ogni novità comporta cambiamenti. Ogni cambiamento deve servire per migliorare l’apprendimento e il benessere delle studentesse e degli studenti e più in generale dell’intera comunità scolastica.

2 I cambiamenti non vanno rifiutati, ma compresi e utilizzati per il raggiungimento dei propri scopi. Bisogna insegnare a usare bene e integrare nella didattica quotidiana i dispositivi, anche attraverso una loro regolamentazione. Proibire l’uso dei dispositivi a scuola non è la soluzione. A questo proposito ogni scuola adotta una Politica di Uso Accettabile (PUA) delle tecnologie digitali.

3 La scuola promuove le condizioni strutturali per l’uso delle tecnologie digitali. Fornisce, per quanto possibile, i necessari servizi e l’indispensabile connettività, favorendo un uso responsabile dei dispositivi personali (BYOD). Le tecnologie digitali sono uno dei modi per sostenere il rinnovamento della scuola.

4 La scuola accoglie e promuove lo sviluppo del digitale nella didattica. La presenza delle tecnologie digitali costituisce una sfida e un’opportunità per la didattica e per la cultura scolastica. Dirigenti e insegnanti attivi in questi campi sono il motore dell’innovazione. Occorre coinvolgere l’intera comunità scolastica anche attraverso la formazione e lo sviluppo professionale.

5 I dispositivi devono essere un mezzo, non un fine. È la didattica che guida l’uso competente e responsabile dei dispositivi. Non basta sviluppare le abilità tecniche, ma occorre sostenere lo sviluppo di una capacità critica e creativa.

6 L’uso dei dispositivi promuove l’autonomia delle studentesse e degli studenti. È in atto una graduale transizione verso situazioni di apprendimento che valorizzano lo spirito d’iniziativa e la responsabilità di studentesse e gli studenti. Bisogna sostenere un approccio consapevole al digitale nonché la capacità d’uso critico delle fonti di informazione, anche in vista di un apprendimento lungo tutto l’arco della vita.

7 Il digitale nella didattica è una scelta: sta ai docenti introdurla e condurla in classe. L’uso dei dispositivi in aula, siano essi analogici o digitali, è promosso dai docenti, nei modi e nei tempi che ritengono più opportuni.

8 Il digitale trasforma gli ambienti di apprendimento. Le possibilità di apprendere sono ampliate, sia per la frequentazione di ambienti digitali e condivisi, sia per l’accesso alle informazioni, e grazie alla connessione continua con la classe. Occorre regolamentare le modalità e i tempi dell’uso e del non uso, anche per imparare a riconoscere e a mantenere separate le dimensioni del privato e del pubblico.

9 Rafforzare la comunità scolastica e l’alleanza educativa con le famiglie. È necessario che l’alleanza educativa tra scuola e famiglia si estenda alle questioni relative all’uso dei dispositivi personali. Le tecnologie digitali devono essere funzionali a questa collaborazione. Lo scopo condiviso è promuovere la crescita di cittadini autonomi e responsabili.

10 Educare alla cittadinanza digitale è un dovere per la scuola. Formare i futuri cittadini della società della conoscenza significa educare alla partecipazione responsabile, all’uso critico delle tecnologie, alla consapevolezza e alla costruzione delle proprie competenze in un mondo sempre più connesso.

avvenire

Social. Facebook fa decidere ai suoi utenti quali sono le fonti di notizie «affidabili»

Facebook nel 2017 supera i 2 miliardi di iscritti, 900mila persone vi accedono ogni minuto, più di 250mila foto e 70mila ore di video vengono viste dagli utenti del più grande social network del mondo ogni sessanta secondi.

Facebook – per dirla con Alberto Puliafito – è diventato una piattaforma dai superpoteri, talmente redditizia e grossa, da aver perso il controllo di sé, da non riuscire più a sorvegliare l’universo indistinto di contenuti che lo alimentano, tra cui anche notizie false che deformano la realtà e post che incitano alla violenza (“hate speech”).

Ora la domanda è semplice: si vuole che sia una piattaforma, che poi è un’azienda privata quotata in borsa che punta a fare profitti e non dedita al bene comune, a stabilire, arbitrariamente, se un articolo sia una fake news?

Ovviamente no. E questo lo sa anche Mark Zuckerberg, fondatore e amministratore delegato di Facebook, che per scrollarsi di dosso questa grande responsabilità ha appena annunciato un nuovo cambiamento dell’algoritmo: d’ora in avanti saranno le persone, iscritte a Facebook, ad avere la responsabilità di definire quali fonti di informazioni siano attendibili e quali no.

«La questione più difficile su cui abbiamo dibattuto è come decidere quali sono le fonti di notizie ampiamente ritenute affidabili in un mondo così diviso – aveva spiegato il fondatore Mark Zuckerberg nel suo post sul quale si sono scatenate molte letture e interpretazioni -. Avremmo potuto provare a prendere questa decisione da soli, ma non è qualcosa con cui ci sentivamo a nostro agio. Abbiamo preso in considerazione l’idea di chiedere a esperti indipendenti, cosa che ci avrebbe sollevati dal prendere la decisione noi stessi, ma che non avrebbe risolto il problema dell’obiettività. Oppure potevamo chiedere a voi – la community – e usare il vostro feedback per valutare le pagine. Abbiamo deciso che quest’ultima opzione è il metodo più obiettivo». Saranno le persone, quindi, a dire se si fidano delle testate da cui attingono le informazioni e, più una fonte sarà ritenuta attendibile, più i contenuti che pubblicano guadagneranno visibilità nel cosiddetto newsfeed, la homepage di Facebook.

Restano da sciogliere una serie di dubbi su come possa la qualità delle informazioni su Facebook essere gestita dagli utenti in modo imparziale e senza pregiudizi? Quello che si sa finora, lo riporta il Post, in un pezzo che prova a confrontare i rischi che si corrono facendo valutare l’attendibilità delle fonti di informazione dalla community: “Agli utenti – si legge – di Facebook sarà chiesto di individuare le fonti di notizie che conoscono e quali, tra quelle a loro note, ritengono essere affidabili. Facebook ha ideato questo sistema basandosi sull’idea che alcune fonti di notizie sono considerate affidabili solo da chi le segue, mentre altre vengono ritenute affidabili anche da chi non le usa, ma le conosce”.

Facendo un esempio concreto: un italiano su Facebook potrebbe valutare come fonte affidabile il quotidianoAvvenire, pur informandosi principalmente su Repubblica. Al tempo stesso potrebbe venirsi a creare un meccanismo distorsivo: un utente di Facebook che usa fonti di informazione connotate in modo diverso rispetto ad Avvenire potrebbe decidere di penalizzare la linea editoriale di questo quotidiano, definendolo una fonte non attendibile. Quest’ultimo è solo un esempio tra i tanti possibili – evidenziati anche dalla rivista online Intercept – che rientrano nello scenario proposto dall’americano Tom Gara, editorialista di BuzzFeed News: convinto che probabilmente il nuovo sistema danneggerà le fonti di notizie con un pronunciato orientamento politico: «Sembra un’ottima notizia per i media che non sono odiati né da una parte né dall’altra».

Di senso opposto è l’analisi di Will Oremus, altro studioso americano, esperto di tecnologie e social media, che sulla rivista Slate ha spiegato che il nuovo sistema non dovrebbe penalizzare le fonti di notizie poco conosciute, dato che il grado di affidabilità verrebbe stimato solo in base al rapporto tra il numero di persone che ritengono affidabile una data fonte di notizie e il numero di persone che la conoscono. Quello che potrebbe accadere però è che si venga ad accentuare quel senso di isolamento informatico, dovuto alla «bolla dei filtri» che su Facebook ci porta a vedere solo notizie di nostro gradimento e opinione su cui siamo d’accordo. Ecco, perché la proposta di Oremus si allarga e rilancia una supervisione umana all’algoritmo: in modo che si possano fare domande più complesse rispetto alle sole «Conosci questa fonte di notizie?» e «Ti fidi di quello che dice?».

da Avvenire