Annuncio atteso. Le due Coree sfileranno unite e sotto una sola bandiera i Giochi

La bandiera della Corea unificata già durante la cerimonia di apertura dei Giochi olimpici di Torino del 2006 (Ansa)

Le due Coree sfileranno insieme sotto la bandiera della Corea unita alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi invernali di PyeongChang: è uno degli accordi raggiunti, in base a una nota congiunta, nell’incontro tenuto a Panmunjom tra le delegazioni di Nord e Sud. Via libera anche all’unica squadra nel torneo di hockey femminile.

Inoltre la Corea del Nord ha accettato di inviare una delegazione di 550 persone alle Olimpiadi invernali al via il 9 febbraio in Corea del Sud. Al meeting di alto livello con Seul, è stato raggiunto l’accordo per l’invio di 230 cheerleader, 30 atleti di taekwondo e una delegazione di 150 membri per le paralimpiadi. Lunedì era stato trovato l’accordo sull’invio di un’orchestra da 140 membri che si esibirà a Seul e in un’altra località interessata dalle gare, Gangneung, a 240 chilometri da Seul.

È previsto per sabato prossimo, 20 gennaio, al palazzo del Cio di Losanna un incontro tra lo stesso Comitato olimpico internazionale, le delegazioni dei comitati olimpici delle due Coree – guidate dai rispettivi presidenti – e quello del comitato organizzatore delle Olimpiadi invernali di PyeongChang. La riunione sarà presieduta dalpresidente del comitato olimpico internazionale Thomas Bach. Saranno quindi affrontate le questioni legate al protocollo relative a inno, bandiera, cerimoniale e divise. Al termine dell’incontro lo stesso Bach leggerà un comunicato sugli esiti della riunione.

ansa

La Giornata. «Porgere l’altra guancia» unisce ebrei e cattolici

La visita di papa Francesco nella sinagoga di Roma nel 2016

C’è un invito che giunge dal Libro delle Lamentazioni all’uomo colpito da una disgrazia: «Porga a chi lo percuote la sua guancia, si sazi di umiliazioni ». E subito alla mente viene quanto dice Gesù nel Vangelo di Matteo o in quello di Luca: «A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra». Basta forse questa frase a capire il profondo legame fra un testo cardine della tradizione ebraica – che è parte anche dell’Antico Testamento – e il messaggio di salvezza incarnato da Cristo. Proprio il Libro delle Lamentazioni è al centro della 29ª Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo fra cattolici ed ebrei che si celebra oggi in Italia. Un appuntamento che vuole «contribuire alla crescita e alla diffusione di un pensiero di conoscenza più approfondita e di collaborazione ancora più concreta tra le comunità ebraiche e le comunità cattoliche nel nostro Paese», spiega il direttore dell’Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo, don Cristiano Bettega,nella presentazione del sussidio Cei per la Giornata. Una pubblicazione che è un confronto a due voci fra Riccardo Di Segni, rabbino capo della Comunità ebraica di Roma, e Piero Stefani, presidente del Sae (Segretariato attività ecumeniche).

Dal 2017 l’evento è scandito dalla comune riflessione sui cinque libri che nella Bibbia ebraica costituiscono le cinque megillot (i rotoli): Rut, Cantico dei Cantici, Qoelet, Lamentazioni, Ester. Dopo il Libro di Rut, tocca a quello che racconta l’uomo piegato dalla sventura che invoca il Signore. «Il tema è la distruzione di Gerusalemme ad opera dei Babilonesi – spiega il rabbino Riccardo Di Segni nel suo intervento all’interno del sussidio – con la descrizione di ciò che l’ha accompagnata (l’assedio, la fame fino al cannibalismo) e seguita (i massacri e la triste sorte dei superstiti), la riflessione sui motivi (colpe antiche e recenti), l’accettazione del giudizio divino ». La catastrofe che si abbatte sulla Città Santa è narrata nel Libro dei Re e nel Libro di Geremia che fu il profeta presente a Sion in quegli anni. E, sottolinea Di Segni, «la tradizione attribuisce a lui la compilazione di Ekhà », nome ebraico per indicare le Lamentazioni. Un rotolo che nella sinagoga viene aperto soprattutto in occasione di precise festività liturgiche. Una è quella del 9 del mese di Av, giorno di ricordo per le due distruzioni del tempio di Gerusalemme: la prima legata all’esilio babilonese; la seconda ad opera dei Romani nel 70. «È un giorno – chiarisce il rabbino capo – accompagnato da una liturgia lugubre, da digiuno e privazioni rituali e sia la sera d’inizio, che la mattina, è segnato dalla lettura con una speciale melodia triste del libro di Ekhà. Che quindi ha nella tradizione religiosa ebraica un preciso ruolo liturgico. L’uso liturgico attesta il profondo legame che la tradizione ebraica ha con la memoria di Gerusalemme».

Il Libro delle Lamentazioni è una sorta di alfabeto (ebraico) in poesia. «La costruzione letteraria è raffinata e sofisticata – osserva il rabbino –. I primi quattro capitoli sono in ordine alfabetico (l’alfabeto ebraico è di 22 lettere) e contengono ciascuno 22 versetti. Nel terzo capitolo ogni lettera è ripetuta tre volte, per un totale di 66 versetti. L’ultimo capitolo non segue l’ordine alfabetico, ma è comunque di 22 versetti». Di Segni si sofferma sul dettaglio della guancia da porgere a chi colpisce che «è notevole anche alla luce di un noto brano evangelico che solleva il problema della originalità di quella affermazione ». E aggiunge: «È interessante vedere come l’esegesi ebraica abbia interpretato il versetto di Ekhà che di molto la precede». Una lettura è che «una persona che accetta la sua vergogna non risponde e in questo modo mette a tacere la controversia e moltiplica la pace». Tuttavia, secondo un’altra interpretazione, se il persecutore è alimentato da odio e spirito vendicativo l’atteggiamento remissivo non lo ferma; quindi bisogna distinguere tra le situazioni. Non così sembra pensarla un’altra voce ebraica che vede nel versetto un messaggio collettivo al popolo eletto di sopportare con dignità il giogo della dispersione. Resta il fatto che il testo fa parte dell’anima ebraica e, conclude Di Segni, «ne rappresenta l’aspetto dolente, ne indirizza i sentimenti e ne configura le speranze».

Stefani: nel popolo eletto le radici comuni di tutte le Chiese

È un’iniziativa che consente «di mettere in pratica un principio ben evidenziato nei documenti ufficiali della Chiesa, secondo cui bisogna conoscere gli ebrei come loro stessi si definiscono». Piero Stefani, presidente del Sae (Segretariato attività ecumeniche), racconta la Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo fra cattolici ed ebrei che si celebra oggi. «Benché sia un appuntamento nato nell’ambito della Chiesa italiana – spiega –, intende rimarcare il rapporto fra le tutte Chiese cristiane che si apprestano da domani a vivere la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani e le comuni radici che hanno con il popolo dell’Alleanza. Perciò la Giornata può essere considerata una significativa introduzione alla Settimana stessa».

Quest’anno al centro c’è il Libro delle Lamentazioni.

Comprendere meglio le componenti proprie del mondo ebraico significa anche entrare all’interno delle celebrazioni e del modo di pregare. Il Libro delle Lamentazioni viene letto durante la festa luttuosa in cui si ricorda la distruzione del tempio di Gerusalemme. Il testo ci suggerisce come affrontare le catastrofi della storia. E tutto ciò è di straordinaria attualità. Il Libro è dal punto di vista formale molto elaborato, poetico, segnato dall’egemonia dell’estetica. Questo testimonia come la devastazione non annienterà il linguaggio, la cultura e soprattutto la preghiera.

Come evocare Dio nel dolore, nella sciagura?

È un tema fondamentale. Il Libro spiega che la calamità è una punizione del Signore per il peccato commesso e se ne invoca il perdono. Le dimensioni del peccato, del pentimento, del perdono sono riferimenti spirituali profondissimi. Quello che non ci è più dato di fare, prendendo a prestito le parole di Benedetto XV sull’«inutile strage» per definire la prima guerra mondiale, è interpretare i flagelli storici come punizioni divine.

Prima della riforma liturgica, c’era il canto in latino delle Lamentazioni nell’“Ufficio delle tenebre” durante il Triduo pasquale che però veniva accompagnato da suoni di chiara impronta antisemita.

L’alfabeto ebraico che segna ogni versetto del testo risuonava nella liturgia cattolica. Ma in un contesto dove dominava l’avversione agli ebrei, ritenuti collettivamente responsabili della morte di Cristo. Oggi potrebbe essere riproposto in un nostro momento di preghiera come segno di fratellanza.

La Giornata è stata preceduta dal documento “Riflessioni a 50 anni da Nostra Aetate” di rabbini provenienti da Europa, Usa e Israele che lo scorso 31 agosto lo hanno consegnato a papa Francesco.

Lo specifico di questo scritto è l’essere stato firmato da una serie di rabbini ortodossi. In esso si sottolinea la positività del cristianesimo nella storia del mondo. È un documento che apre nuove prospettive riproponendo in modo preciso uno spirito già emerso. Sullo sfondo resta invece un punto molto delicato: è quello del ruolo che ha lo Stato d’Israele nell’autodefinizione ebraica. Forse, viste anche le tensioni che stanno crescendo in queste settimane intorno allo status di Gerusalemme, si tratta del problema più complesso negli attuali rapporti ebraico-cristiani.

da Avvenire

Lettere. Gli studenti che soccorsero una ragazza e l’importanza di raccontare il bene

Caro Avvenire,
la cronaca di questi giorni ci dice ancora una volta che di fronte ad atti di violenza per strada o sui mezzi pubblici molti si voltano dall’altra parte. Non accade sempre così. Ai primi di giugno 2017 i nostri studenti del Dipartimento di Scienze agrarie, forestali e alimentari dell’Università di Torino, al termine di una escursione a Sanremo, sono intervenuti coraggiosamente avendo udito le grida disperate di una ragazza che in prossimità della spiaggia veniva malmenata e violentata per essere poi avviata alla prostituzione. Hanno salvato la ragazza, chiamato la polizia e collaborato con gli agenti per sistemarla, e io stesso la mattina successiva l’ho poi accompagnata alla stazione di Polizia e all’ospedale. La foresta che cresce, non fa rumore e neanche audience.

Valter Boero Università di Torino

Che delle bande di ragazzini, come si è ripetuto in questi giorni, aggrediscano dei coetanei senza alcuna ragione, già sembra un segno di un impazzimento che germina oscuramente nel tessuto sociale. Li diresti barbari, ma forse nemmeno i barbari si accanivano sui viandanti senza un motivo. C’è però un fenomeno altrettanto sinistro registrato dalle cronache, ed è che spesso i presenti non intervengono in difesa della vittima. Nell’ultima aggressione a Napoli le telecamere di sorveglianza hanno testimoniato questa collettiva omissione, questo voltarsi tutti dall’altra parte, come se niente fosse. Come se quel ragazzo malmenato non fosse riconosciuto uguale a un figlio, o un fratello. In difesa di un figlio si interviene; e si interviene anche per un estraneo, se scatta un umano riconoscimento, il vedere in uno sconosciuto uno di noi – uno di cui ci importa. È un meccanismo che solitamente opera nelle società civili. Se questo meccanismo non funziona è come se ci tremasse la terra sotto ai piedi: sono le fondamenta del nostro vivere insieme, che sembrano cedere. Il professor Boero però ci racconta un episodio simile alle cronache di questi giorni, con tutto un altro finale. Un gruppo di studenti è intervenuto a impedire lo stupro di una coetanea, su una spiaggia di Sanremo. Nessun media il giorno dopo ha raccontato l’episodio; forse, giornalisticamente, uno stupro sventato non è da titolo, e lo è invece che dei ragazzi siano massacrati di botte, mentre tutti guardano altrove. Il fare il bene difficilmente fa notizia, se per notizia si intende ciò che “spacca” e contraddice la normalità. Per questo, dentro all’indifferenza che ci prolifera attorno, anche noi giornalisti dovremmo forse modificare i nostri canoni. Dovremmo capovolgerli, e raccontare anche tutte le volte che una violenza è sventata, tutte le volte che qualcuno si mette di mezzo e si fa carico del destino del prossimo, sconosciuto. Come questi universitari torinesi, che non hanno esitato a schierarsi in favore di una ragazza aggredita. Dovremmo raccontarci di più il bene, per non lasciarci smarrire, per non finire col convincerci che ormai viviamo in una giungla. Per non diventare cinici e disillusi. Abbiamo bisogno di sentirci testimoniare il bene, per rincuorarci e per continuare a sperare. Per non aver paura di far nascere dei figli in questo mondo, abbiamo bisogno di imparare a tendere l’orecchio, e imparare, sì, a riconoscere il rumore tenue, ma ampio e fedele, della foresta che cresce.

da Avvenire

Analisi. Ora di religione e pluralismo l’Italia fa scuola in Europa

Il risultato dell’indagine condotta da diversi istituti ricerca, e per il quale l’88% dei ragazzi, o delle loro famiglie, sceglie liberamente di seguire l’ora di religione nella scuola statale, è una notizia buona, sorprendente solo per alcuni, e suggerisce più d’una riflessione. Siamo di fronte a un dato che unisce la società civile aldilà delle differenze ideali a culturali, e che ha una radice importante nella storia unitaria d’Italia, non da tutti conosciuta. I nostri Padri risorgimentali, pur nell’ambito di un separatismo nel quale s’intrecciavano modernità, asprezze e lungimiranza, posero alcuni principi a base del rapporto tra scuola e religione: con la Legge Casati nel 1859, che istituisce scuola pubblica e prevedeva, tra i simboli da valorizzare, il Crocifisso, e la Legge Coppino del 1877 che completa il quadro scolastico e disciplina la scuola elementare.

lI primo risultato fu che, pur non prevedendo l’insegnamento religioso dalle scuole superiori, esso rimase nelle scuole elementari lasciando ai Comuni e alle famiglie la facoltà di istituirlo: pressoché tutte le famiglie scelsero di avvalersene. Di grande interesse le motivazioni espresse da politici e costituzionalisti dell’epoca, per i quali una scuola senza Dio incontrava l’ostilità popolare, mentre la religione giovava a educare buoni cittadini. Una lezione di saggezza, rispettosa di sentimenti profondi, che ha garantito un esito decisivo: dall’Unità d’Italia, tutti i nostri bambini hanno avuto a scuola un’educazione e una formazione religiosa basilare per la loro crescita. Più volte, in Parlamento alcuni proposero di abolire questa scelta scolastica fondamentale, ma ogni volta la proposta venne respinta.

Il grande dibattito alla Costituente del 1946-47 ha sfiorato più volte il tema dell’insegnamento religioso, e s’è concluso con la definizione del pluralismo previsto negli articoli 7 e 8, che hanno coniugato la ricezione dei Patti Lateranensi del 1929 con la piena libertà di ogni confessione religiosa: prospettiva che s’è realizzata più tardi con la revisione del Concordato e le prime Intese con altri culti. Nel dibattito sulle grandi riforme dell’ordinamento si formò, tra il 1976 e il 1984, un’ampia maggioranza favorevole alla conferma dell’insegnamento religioso, e si rinnovò la sua disciplina in rapporto alla libertà di scelta dei ragazzi e delle famiglie: un obiettivo molto sentito da Paolo VI che promosse e seguì da vicino le prima parte delle trattative per il nuovo testo pattizio. Esponenti politici e culturali d’ogni schieramento, da Giovanni Spadolini a Gaetano Arfè, da Paolo Bufalini a Pietro Scoppola, vollero con convinzione questo risultato, e ricordo personalmente che nel 1984 Enrico Berlinguer, all’atto di assicurare il consenso parlamentare del proprio Austria, poi dopo la fine della glaciazione comunista che in Russia e nell’Est europeo aveva azzerato ogni rapporto tra scuola e religione, il modello italiano s’è affermato un po’ dovunque, ispirando le nuove legislazioni ecclesiastiche e civili.

Ancora oggi c’è chi alimenta una specie di leggenda metropolitana, per la quale il nostro sarebbe l’unico Paese ad avere un Concordato, e a prevedere la cosiddetta ‘ora di religione’ nelle scuole. Niente di più inesatto, dal momento che i Concordati con la Chiesa cattolica e le Intese con altri culti sono in Europa alcune decine, e l’insegnamento religioso, per via concordataria o con leggi unilaterali, è oggi impartito nell’80% dei Paesi europei, nel Nord, nel Centro, a Ovest e a Est, ed è stato reintrodotto in quasi tutti i Paesi ex comunisti, a cominciare dalla Russia: Polonia, Romania, Croazia, Paesi partito al nuovo Concordato, motivò la condivisione piena dell’insegnamento religioso con l’esigenza che la scuola garantisse ai ragazzi un discorso sui valori e i princìpi etici fondamentali. Baltici.

Le scelte italiane del Novecento, alla Costituente e poi nel 1984, hanno avuto un valore anche oltre i nostri confini, ispirando una svolta positiva nei rapporti tra Stato e Chiesa in diverse Paesi europei: prima con la revisione dei Concordati in Spagna, Portogallo, diritto dei genitori di istruire e educare i figli secondo i propri valori e orientamenti religiosi e ideali. Si conferma, inoltre, un elemento specificamente italiano: l’aver impostato con il nuovo Concordato l’insegnamento religioso in un orizzonte di apertura e conoscenza culturale ha incontrato il favore delle famiglie e dei giovani, perché risponde a domande ed esigenze proprie di una società aperta al pluralismo e interculturalità. La scelta così ampia della popolazione scolastica, infine, testimonia la capacità professionale di tanti insegnanti di religione, che s’impegnano con intelligenza e abnegazione nell’assolvere la propria missione in condizioni non sempre facili. Queste valutazioni dovrebbero scoraggiare chi ogni tanto cerca di sminuire l’Irc, proponendo un più vago insegnamento delle religioni, che ricondurrebbe tutto in una nebulosa relativistica.

E possono spingere tutti noi a valutare il bene prezioso che l’insegnamento religioso costituisce per la scuola di oggi. E sso rappresenta un insostituibile legame con la nostra tradizione e identità culturale, e risponde oggi alle esigenze di una società globalizzata e insieme interculturale, nella quale si sente il bisogno di costruire dal profondo un tessuto di solidarietà che aggreghi persone, famiglie, gruppi etnici, e lo faccia iniziando dalla formazione dei più giovani. La presenza religiosa nelle scuole non garantisce soltanto la religione cattolica, è assicurata dalle Intese anche ad altre Confessioni, a cominciare da quella ebraica, che prevedono lo studio del fatto religioso, o specificamente lo studio dell’ebraismo.

E a nessuno sfugge che il pluralismo religioso nella scuola risponde anche alle esigenze poste dall’immigrazione, che fa avvicinare sempre più i nostri ragazzi ai giovani che vengono da tutto il mondo: esso permette, tra l’altro, di promuovere principi essenziali come quelli della giustizia, per l’abbattimento dei privilegi e la cura dei più poveri, e della solidarietà che deve plasmare i rapporti sociali e internazionali. L’ispirazione religiosa può costituire il fondamento più solido di una cultura solidale che innesti nel processo formativo delle nuove generazioni valori insostituibili per l’evoluzione che sta vivendo la nostra società e per il conseguimento del bene comune.

da Avvenire

Il panorama del pluralismo religioso in Italia

Dossier Statistico Immigrazione 2017

Fra il ricco materiale che la pubblicazione ci offre, cerco di mettere in evidenza alcuni risultati che, come affermano Luca di Sciullo dell’IDOS (che pubblicano il lavoro annualmente da 27 anni) e Paolo Naso della Università La Sapienza di Roma, ci aiutano a “demolire il pregiudizio allarmistico di una ‘invasione’ islamica in atto”. E’ una politica costante attraverso la quale i media riescono abilmente ad associare nel nostro immaginario l’idea di un ingresso di massa di potenziali terroristi dell’ISIS sul nostro territorio nazionale. Ma come stanno veramente le cose?

A sfatare questa immagine spesso ormai ben radicata in molti di noi, stanno dei numeri che non lasciano adito a dubbi. Infatti dei 5.043.600 stranieri residenti in Italia alla fine dello scorso anno, il 53% risultavano cristiani e solo meno di un terzo (32%) musulmani. Se vogliamo parlare di cifre le cose stanno nei seguenti termini: 2.617.000 sono cristiani e 1.642.000 musulmani. Le altre presenze religiose nel panorama italiano, ovviamente sempre più plurale dal punto di vista etnico, religioso e culturale, sono assai più limitate, nonostante manifestino una consistenza impensabile solo alcuni anni fa. Gli indù sono il 3% con circa 150 mila unità, i buddhisti ancora meno (il 2,3% che corrisponde a 113.900 persone). Più numerosi quelli che potrebbero essere definiti ‘atei’, ‘agnostici’ o, comunque, senza un riferimento religioso preciso: 235 mila circa pari al 4,7% dei migranti residenti nel nostro Paese. Il panorama statistico smentisce, quindi, i ‘profeti di sventura’, che vedono una vera invasione islamica dell’Europa e dell’Italia. Sebbene i musulmani stiano crescendo sensibilmente siamo molto lontani dalle minacce di invasione. E’ opportuno e istruttivo dare uno sguardo anche alla provenienza dei seguaci di religione islamica. Infatti, il 38,6% proviene da Paesi africani dell’area mediterranea (Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto, Palestina) ed un altro 30% dall’Europa centro-orientale (Albania, Macedonia, Serbia, Moldavia ecc.). Altre minoranze musulmane sono quelle che hanno origine in Paesi africani occidentali (il 12%) e nel sub-continente indiano, soprattutto Pakistan e Bangladesh, da dove arrivano circa il 15,4% dei musulmani residenti. Un bel panorama che fa capire anche quanto sia frastagliato il cosmo ‘islam’ in Italia e che spiega la difficoltà ad avere interlocutori che parlino a nome dei musulmani come tali. La presenza musulmana nel ‘Bel Paese’, infatti propone diversi Islam, da quelli della sponda sud del bacino mediterraneo che nell’immaginario occidentale si identifica con tutto quanto viene riferito al termine ‘Islam’ e ‘musulmano’, a quelli dell’Europa Orientale, discendenti dall’Impero Ottomano. Non basta. I musulmani provenienti, per esempio dal Senegal hanno davvero poco in comune con quelli che arrivano da Pakistan e Bangladesh anche se sono tutti parte della Umma musulmana, professano la stessa fede e recitano lo stesso Corano. I loro contesti culturali, tuttavia, sono distanti anni luce.

Come si diceva, i cristiani restano più della metà fra coloro che sono migrati nel nostro Paese e, come si sa, la rappresentanza più consistente in quanto a provenienza, è quella europea con stragrande maggioranza dalla parte orientale del nostro continente, la Romania in testa a tutti (circa il 75%). Fra questi, in quanto a professione religiosa, prevalgono in modo netto gli ortodossi con un milione e mezzo di fedeli, mentre i cattolici sono meno di un milione, a fronte anche di evangelici, luterani e pentecostali. Ma è bene sottolineare come il cristianesimo sia alimentato anche dall’immigrazione proveniente da Sud-America – in particolare l’Ecuador – (12,2%) ed Asia, grazie alle Filippine, (16,2%). Dall’Africa provengono molti cristiani, che rappresentano circa il 35% di coloro che fra gli immigrati residenti sono appartenenti a Chiese evangeliche e pentecostali.

Ci sono, poi, altre religioni, come quelle asiatiche – indù, buddhisti e sikhs – che hanno una presenza piuttosto significativa a seguito dei processi migratori dall’Asia. I sikhs, infatti, provengono al 100% dal sub-continente indiano come pure gli induisti (97,5%). Fra questi ultimi ci sono alcune minoranze esigue di provenienza dall’Africa orientale che a suo tempo, nel secolo del colonialismo inglese, aveva visto una forte migrazione indiana per motivi di lavoro. I buddhisti provengono anch’essi dall’Asia per vie migratorie – in particolare Sri Lanka, ma anche Cina, Vietnam. A questo proposito è importante notare come sia in crescita il fenomeno del buddhismo di ‘casa nostra’, iniziato da lungo tempo. In Europa, infatti, come notava Martin Baumann nel suo Westward Dharma: Buddhism beyond Asia, dopo il grande interesse per le religioni orientali esploso ancora in periodo coloniale e con la nascita della Società Teosofica nel 1875, una svolta è avvenuta con la fuga del Dalai Lama dal Tibet e dal contenzioso con la Cina popolare e il crescente interesse in Europa per il leader del ‘Buddhismo del gioiello’ (come è chiamato il filone tibetano di questa religione). La passione per il buddhismo è poi cresciuta negli anni ’60 e 70’ con lo Zen e la letteratura buddhista  e la cinematografia su temi di cultura tibetana. Nel 1960 era nata a Firenze l’Associazione Buddhista Italiana e nel 1967 sono iniziate pubblicazioni sul tema, come la rivista Buddhismo Scientifico.Negli anni Ottanta viene, infine, fondata l’Unione Buddhisti Italiani (UBI) che raccoglie oggi membri di diverse associazioni e movimenti buddhisti che superano le 80.000 persone, come risulta dalla documentazione ufficiale. Questo buddhismo ‘italiano’, che in generale non ha alcun rapporto con quello proveniente dai processi migratori, è in continua crescita, come dimostra anche il raggiungimento dell’intesa fra l’UBI ed il Governo Italiano nel dicembre del 2011. Ad oggi sono una cinquantina i centri che aderiscono all’UBI mentre i seguaci del buddhismo di ‘casa nostra’ si aggirano sui 170.000 da aggiungere ai circa 113 mila provenienti da Cina, Sri Lanka, Thailandia. Circa metà dei buddhisti italiani seguono gli insegnamenti del movimento giapponese Soka Gakkai che nel 2014 ha inaugurato a Milano un centro nazionale – il Centro Culturale Ikeda per la Pace – che è attualmente il luogo di carattere buddhista più grande d’Europa. Questa comunità ha un peso anche a livello sociale ed amministrativo ed ha raggiunto una intesa con il Governo Italiano nel 2016.

Come appare da queste poche pennellate e riferimenti ai dati apparsi sul Dossier Immigrazione, il panorama religioso in Italia è ben più complesso e variegato di quello monocolore islamico che ci viene comunicato con informazioni monocorde. Siamo senza dubbio teatro di un rinnovamento epocale a livello sociale e da Paese pressochè monoetnico (sia pure con piccole e importanti minoranze) stiamo diventando multietnico e, dunque, ci trasformiamo anche in penisola multireligiosa.

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