Schizofrenia. Viaggio nel pianeta oscuro, dove le famiglie sono lasciate sole

I malati in Italia sono 245mila. A curarli, h24, genitori fratelli e partner. Che lasciano il lavoro, sono a rischi povertà e si isolano per la vergogna. Il rapporto del Censis

Viaggio nel pianeta oscuro, dove le famiglie sono lasciate sole

Le voci, la confusione, la rabbia. Inizia piano, il male oscuro, e poi diventa padrone, finisce per spaccare il cervello. Significa proprio questo, schizofrenia. E succede a 245mila italiani. Curarsi si può, esistono farmaci efficaci e innovativi, come quelli “a lunga durata d’azione”: iniezioni che hanno la durata di 3 mesi, e prevedono solo 4 somministrazioni all’anno, risolvendo il problema di doversi ricordare quotidianamente di assumerli. Per questi pazienti, una vera svolta offerta dalla medicina negli ultimi anni.

Tutto il resto, però, è e resta complicatissimo. Per loro, e per chi se ne prende cura. Come per tutte le altre disabilità in Italia, soprattutto per quella mentale l’assistenza ai malati di schizofrenia pesa quasi per intero sulle spalle dei familiari. I dati sono allarmanti e a raccoglierli ha pensato il Censis, con un’indagine intitolata «Vivere con la schizofrenia: il punto di vista dei pazienti e dei loro caregiver» e realizzata su un campione di 160 pazienti con diagnosi di schizofrenia e 164 loro familiari. A occuparsi degli schizofrenici principalmente sono i genitori (54,8%), un fratello o una sorella (19,1%), il partner (11,5%) e il ricorso a personale esterno è limitato – complice la vergogna per la malattia – a poco meno dell’8% dei casi. L’impegno richiesto è tuttavia particolarmente gravoso e si divide tra ore dedicate all’assistenza (in media i caregiver dedicano a queste funzioni 12,3 ore della giornata) e alla sorveglianza (12,8 ore in media).

Ma c’è di più. Ci sono le sollecitazioni emotive e la fatica fisica legata all’attività di assistenza del malato, che determinano ricadute di diverso tipo. Così il 63% dei caregiver si sente fisicamente stanco, il 43,5% non dorme a sufficienza, il 23,2% è dovuto ricorrere a supporto psicologico.

E ancora, il 37,8% (quasi 4 caregiver su 10) ha modificato alcuni aspetti della propria vita lavorativa, con un impatto che per molti si è tradotto concretamente nell’abbassamento del proprio livello reddituale. In particolare: il 24,5% è andato in pensione anticipata, il 15,1% ha rinunciato alla ricerca di un lavoro e si è dedicato interamente all’assistenza del familiare. E ancora, la malattia infetta anche la coesione familiare: per il 57,6% dei caregiver le necessità di assistenza del malato hanno determinato malcontento tra i componenti del nucleo familiare, il 32,6% segnala frustrazione per non riuscire ad adempiere appieno ai propri doveri familiari e il 17,4% segnala un impatto anche sulla propria relazione di coppia.

A una situazione così drammatica si affianca l’isolamento sociale dei malati, su cui i dati sono altrettanto spietati. La schizofrenia si presenta in giovane età, tra i 15 e i 35 anni, e divora tutto: l’attività lavorativa (il 47,2% di chi lo aveva lo perde), la scuola (il 33,8% la lascia), gli affetti (l’80% dei pazienti non ha partner). Le conseguenze in termini personali sono poi drammatiche: a fronte del 59,7% che indica di aver ricevuto attestati di solidarietà da parte dei propri conoscenti, sono prevalenti le esperienze di frustrazione, disagio ed emarginazione (il 75,2% nasconde o non parla a nessuno della sua malattia, il 70,5% si sente discriminato, il 63,8% teme che i sintomi diventino evidenti in certe circostanze).

«Non è dunque un caso che le aspettative nei confronti del sistema dei servizi – spiega Ketty Vaccaro, responsabile dell’area Welfare e salute del Censis – si focalizzino proprio sullo sviluppo dell’inserimento lavorativo e delle attività di socializzazione, per rendere possibile una convivenza con la patologia sempre più accettabile e meno penalizzante». Sconfortante anche il dato sul ritardo nelle diagnosi: poco più di un paziente su quattro ha ricevuto la diagnosi di schizofrenia alla prima visita (il 27,2%), mentre il 15,2% dopo oltre cinque controlli, il 12,6% dopo tre o quattro consulti medici, il 7,9% dopo il secondo incontro. Un percorso a ostacoli – da compiere senza risposte e soprattutto senza cure – che mediamente dura 3 anni.

«Noi, infermieri di nostro figlio a 80 anni»

Li ha vissuti tutti, i numeri del Censis sulla schizofrenia, Luciano Prando. Che da oltre trent’anni si occupa di malattie mentali perché da oltre trent’anni suo figlio è malato. «Il male è arrivato che ne aveva 15. In due mesi l’ha inghiottito con tutto il suo furore. E per noi la diagnosi non è stata certo il problema, il problema è stata la cura». I farmaci giusti, quelli che alla famiglia Prando hanno permesso di tornare a una pseudonormalità, «sono arrivati soltanto negli anni Novanta. Con quelli abbiamo ricominciato a ragionarci, con nostro figlio». Ragionare con tutto il resto invece «è quasi impossibile. Viviamo come su un lago ghiacciato, da una parte cede, dall’altra ti tiene, poi dove ti teneva cede».

Una foto di Franco Basaglia, lo psichiatra a cui si deve la famosa legge 180 del 1978 che ha imposto la chiusura dei manicomi e regolato il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo servizi di igiene mentale pubblici. L’intenzione della legge era quella di favorire terapie che non ledessero la dignità e la qualità di vita dei pazienti, che nei vecchi manicomi venivano spesso trattati con elettroshock e terapie farmacologiche decisamente invasive

Una foto di Franco Basaglia, lo psichiatra a cui si deve la famosa legge 180 del 1978 che ha imposto la chiusura dei manicomi e regolato il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo servizi di igiene mentale pubblici. L’intenzione della legge era quella di favorire terapie che non ledessero la dignità e la qualità di vita dei pazienti, che nei vecchi manicomi venivano spesso trattati con elettroshock e terapie farmacologiche decisamente invasive

Luciano Prando è nel direttivo dell’Arap, l’Associazione per la riforma dell’assistenza psichiatrica fondata nel 1981 da un gruppo di famiglie dei malati di mente: «Non forniamo servizi – racconta –, ma rappresentiamo nei diversi organismi istituzionali il punto di vista e i diritti dei nostri figli. Io lo faccio in Emilia Romagna». E la situazione di queste famiglie va sì rappresentata, «forse urlata, perché siamo soli. Perché nessuno si è ancora posto il problema di come due genitori ottantenni possano prendersi cura di un figlio 50enne, come il nostro, e coi problemi del nostro». Niente lavoro, ovviamente. Niente rapporti. Senza contare che le famiglie come quella di Luciano, della schizofrenia, non parlano.

L’Arap lo sa bene: in occasione di un sondaggio tra gli iscritti per la legge sul Dopo di noi «non ci ha risposto quasi nessuno. Non vogliono sapere nulla, non vogliono far sapere». Questa vergogna spesso porta anche alla scelta di non rivolgersi alla sanità pubblica per la cura e l’assistenza: «Quelli che lo fanno d’altronde si scontrano con le lacune del Sistema sanitario: pochi psichiatri, pochissime visite, percorsi di cura troppo brevi e spesso superficiali». Niente da stupirsi se è vero, come ricorda Prando, che in spese psichiatriche l’Italia investe il 3,5% del suo budget sanitario, contro il 12 e il 15% di Francia e Germania. Soli e dimenticati: «Questo fa più male della malattia dei nostri figli».

da Avvenire

Lettere. «Quarant’anni e ancora precaria. E ciò che è perso lo è per sempre»

Lettera ad Avvenire

Caro Avvenire,
troppe volte mi viene da pensare a cosa proverei se avessi un lavoro dignitoso che mi consentisse di guardare al futuro senza paure. Ho sempre provato ad immaginare il sentimento che mi avrebbe animato se ciò fosse successo, ma questo purtroppo non è mai successo. E gli anni sono passati… . Ne sono passati troppi. Oggi mi ritrovo a 40 anni ad essere ancora precaria, con quella sensazione terribile di pensare che ormai ciò che di buono poteva esserci non c’è stato, quella sensazione terribile che, se sei stata precaria fino a quel momento, non avrai nessuna possibilità di non esserlo nei prossimi anni, quella sensazione terribile che a tutto ciò cui hai rinunciato – compreso un altro figlio – ci hai rinunciato per sempre. Se prima potevi almeno sognare, sperare… ora ti tocca raccogliere soltanto i cocci di quello che rimane. Governo e Parlamento continuano a concedere agevolazioni alle aziende che assumono giovani fino ai 35 anni. Io comprendo tutto, ma non comprendo il futuro che il Governo ha pensato per chi 35 anni non ce li ha più, e magari un lavoro lo ha perso, per chi ha dei figli da crescere, da far studiare, un mutuo o un affitto da pagare, una casa da mantenere, per chi ogni giorno deve fare i conti con il poco lavoro, i pochi soldi, e le tante rinunce per sé e per i propri figli. Chi si candida a governare il Paese che progetto ha per noi? Per noi che abbiamo deciso di far nascere e crescere i nostri figli in Italia? Per noi che abbiamo creduto in un Paese capace di creare condizioni di vita dignitosa per i propri cittadini? Per tutti i cittadini. Davvero si può pensare che un genitore possa tornare a fare il figlio? A chiedere aiuto ai propri genitori? Davvero si può pensare che una mamma non si senta umiliata nel vedere che i tuoi genitori ti danno un aiuto economico spacciandolo come regalo di Natale? Davvero si può pensare che tutto questo non abbia ripercussioni psicologiche sui nostri figli, che vivono quotidianamente un disagio economico che si traduce anche in un disagio familiare e affettivo? Non ci si può meravigliare se poi i nostri figli decideranno di scappare da qui, avendo vissuto magari un’infanzia e un’adolescenza intrisa di quel senso di ingiustizia sociale che hanno respirato attraverso l’amarezza dei propri genitori. Io non chiedo di avere dei canali preferenziali. Chiedo solo di giocare ad armi pari. Non limitateci ulteriormente. A limitarci ci pensa già la nostra età che viene annotata nei curriculum vitae. È talmente limitante che il resto del curriculum non viene neanche preso in considerazione. Penso che a 40 anni abbiamo ancora il diritto di lavorare e di dare ai nostri figli una vita dignitosa. In altre parole, abbiamo diritto alla dignità, perché chi è precario nel lavoro, è precario anche nella vita. In fondo pretendo solo quello che la Costituzione mi ha promesso da 70 anni: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Carmela Di Carlo Potenza

Era il 1995 e Jeremy Rifkin aveva appena pubblicato il suo famoso “La fine del lavoro”, dove teorizzava una rivoluzione nel mondo industriale e nel terziario e nuovi tempi e modi di accesso al lavoro. “Avvenire” mi mandò a intervistare un sociologo, docente universitario, per capire in concreto quali cambiamenti ci si dovesse aspettare. Il professore mi spiegò del lavoro interinale, a termine, insomma della fine del posto fisso e dell’avvento del precariato, di cui allora ancora non si parlava. Rimasi perplessa: ma senza un contratto fisso, gli chiesi, chi si avventurerà a avere una famiglia, dei figli, o semplicemente a fare un mutuo per la casa? Ci si abituerà, replicò ottimista il professore, per i giovani sarà normale passare da un posto all’altro, senza garanzie. Sono passati più di vent’anni e la signora Di Carlo fa parte della generazione che ha affrontato il precariato. Ora ha quarant’anni ed è ancora precaria: e essere precari nel lavoro, scrive, significa esserlo nella vita. Questa lettera è la testimonianza di un dramma generazionale. Un secondo figlio cui si è rinunciato, nell’ansia di non poterlo mantenere – è anche questa, l’Italia delle culle vuote. E chissà quali altri progetti mancati. Da ragazzi, scrive la signora, si può ancora sognare; a una certa età, restano i cocci. La malinconia di dover accettare un aiuto dai genitori, ancora; l’ansia continua di non farcela. È giusto che la legge incoraggi le assunzioni degli under 35 – nella speranza che almeno questa generazione possa costruirsi una famiglia e un futuro, prima di essere costretta, come già fanno in tanti, a emigrare. Ma, e i ragazzi che avevano vent’anni nel 2000, quelli rimasti precari ad oltranza? Ora la loro data di nascita nei curriculum è già un elemento per scartarli. Occorre, per equità, pensare anche a loro, rimasti a metà fra i padri, supergarantiti, e i fratelli minori cui oggi, resisi conto di quale problema è il precariato, si cerca, con fatica, di dare aiuto. Nel dramma del lavoro che manca, un’ulteriore urgenza: quelli che a 40 anni per il mercato sono “vecchi”, ma il tempo di progettare e di costruire non lo hanno avuto, in questa Repubblica, recita la Costituzione, «fondata sul lavoro». Questa del creare lavoro dovrebbe essere l’urgenza che preme tutti i candidati alle prossime elezioni. Lavoro, e quindi progetti, famiglia, figli, futuro. Per questo abbiamo messo a tema la questione sulle nostre pagine. E lo faremo ancora. Perché sentiamo soprattutto tante promesse di tasse abolite, di “sconti” e altri gadget propagandistici. L’urgenza che brucia, con la famiglia, è il lavoro.

Monsignor Ganapini compie 90 anni: festa in Madagascar

Originario di Pantano di Carpineti, don Pietro vive e opera come missionario nella Casa della Carità di Tongarivo

CARPINETI (Reggio Emilia) – In Madagascar, nella Casa della Carità di Tongarivo (nella periferia della capitale, Antananarivo) sono stati festeggiati i 90 anni di monsignor Pietro Ganapini. Con lui le carmelitane minori e i fratelli della carità, i missionari diocesani, i volontari e gli ospiti della struttura Tongarino è stata la prima casa aperta in Madagascar l’11 febbraio 1969.

Da quasi 57 anni mons. Pietro Ganapini, nato a Pantano di Carpineti il 19 gennaio 1928, sacerdote dal 1950, è missionario diocesano “fidei donum” in Madagascar. Partì dalla nostra diocesi per la grande isola rossa dell’Oceano Indiano il 20 novembre 1961 durante l’episcopato di Beniamino Socche, che lo aveva ordinato presbitero.

La sua ultima visita in Italia risale all’estate del 2016; il 6 settembre, quasi ottantanovenne, ripartì nuovamente per il Madagascar: nella vasta diocesi di Antananarivo – la capitale – sta continuando la sua preziosa e instancabile opera in campo educativo. In oltre undici lustri ha costruito per i poveri nelle campagne ben 80 scuole soprattutto primarie, ma nella parrocchia di Ambinidia, dove ha lavorato per 32 anni, ha anche realizzato una scuola media e un liceo. Migliaia sono ormai le bambine e i ragazzi che tramite queste preziose istituzioni hanno vinto l’analfabetismo.

In occasione del genetliaco, il vescovo Massimo ha fatto pervenire al missionario un messaggio augurale in cui sottolinea che il suo 90° compleanno non poteva rimanere una circostanza strettamente privata: infatti riguarda e riempie di gioia tutta la Chiesa reggiano-guastallese. “Con i tuoi 90 anni di vita, di cui quasi sessanta in Madagascar, primo “fidei donum” della Diocesi, per noi sei il patriarca della missione. E alzando gli occhi al cielo, come il padre Abramo, puoi contemplare una moltitudine numerosa come le stelle: penso al popolo dei Malgasci che, diventando uno di loro, hai aiutato a conoscere e credere in Gesù, hai aiutato a celebrare e cantare la fede, a vivere la gioia della comunità cristiana, hai sfamato e aiutato a ritrovare la dignità e la speranza nel futuro con le scuole che portano il tuo nome, disseminate nella Diocesi della Capitale”. 

da reggionline.com

Scuola: al via terza edizione concorso ‘Fotografi di classe’

(ANSA) – ROMA, 31 GEN – E’ arrivato alla terza edizione ‘Fotografi di classe”, il concorso fotografico annuale promosso dall’Associazione Italiana Insegnanti di Geografia, con il sostegno di De Agostini Scuola e Fondazione Italia Patria della Bellezza per la diffusione dell’educazione e della cultura geografica e ambientale, ma anche dell’educazione al confronto e all’incontro. Luoghi, scuola, dialogo, socialità, inclusione sono le parole chiave del concorso, quest’anno dedicato a “I luoghi dell’incontro. Gli spazi della socialità e del dialogo nell’Italia di oggi”. L’obiettivo, spiegano in una nota gli organizzatori, è “di sollecitare gli studenti e le studentesse ad andare oltre la pura percezione visiva, osservando criticamente il paesaggio dei luoghi in cui vivono e che conoscono, attraverso la scuola e l’impegno dei propri docenti, per accrescere la consapevolezza del valore del paesaggio come bene comune”. Al concorso possono partecipare classi delle scuole di ogni ordine e grado. Sono istituite, tre categorie di partecipanti: classi quarte e quinte della Scuola primaria; classi di suola secondaria di primo grado; classi di scuola secondaria di secondo grado. Una giuria tecnica e una giuria popolare social selezioneranno i migliori scatti (tre vincitori per ogni categoria) a cui saranno assegnati premi e menzioni (pubblicazione a carattere geografico della Casa Editrice De Agostini; una fotocamera digitale offerta da Italia Patria della Bellezza; un abbonamento annuale alla Rivista dell’AIIG per i docenti referenti; medaglia o coppa dell’AIIG). Le immagini fotografiche dovranno pervenire tramite email all’indirizzo: concorsofotoaiig@gmail.com, entro e non oltre il 20 aprile 2018.(ANSA).