Novara. Gara di solidarietà per la bimba etiope che rischia la cecità

«Guardate il Natale con gli occhi di Raffaella». È l’ultima storia di fine anno. Arriva da una strada di periferia di Novara. La cupola della basilica di San Gaudenzio è sullo sfondo, ma lontana. Tutt’intorno nell’Istituto Comprensivo Duca d’Aosta c’è l’erba stanca di un parco. Le auto scorrono via veloci, papà e mamme con i bambini entrano in questo edificio che è ciò che di meglio gli anni Novanta hanno dato alla città. S’odono voci, giochi, gioia. In un’aula al pian terreno, in fondo al corridoio, ha mosso i primi passi una storia che è insieme un abbraccio tra generazioni e continenti. «Raffaella ha nove anni – racconta la maestra Elena Colombo – vive nella periferia di Addis Abeba. Una casa poverissima, come quelle delle favelas brasiliane. Sono in sette ma sorridono, nonostante tutto alla vita». «Le nostre vite s’incrociano quasi per caso – aggiunge Anna Piccinelli – io insegnavo in Africa. Attraverso una piattaforma di contatti, in qualche modo legata a Expo 2015, le nostre giornate s’incontrano. Raffaella arriva a Novara in quei giorni mondiali. Qualcuno capisce che ha una malattia agli occhi». È vero. La bimba soffre di una malattia degenerativa e rischia la cecità. A Novara scatta quindi una corsa contro il tempo per raccogliere i fondi per il soggiorno e salvarle la vita.

Legge della vicenda Mariella Enoc, chiamata da papa Francesco a presiedere il Bambino Gesù. È novarese, imprenditrice e manager illuminata, ha presieduto anche gli industriali del Piemonte. È colpita dalla spontaneità, anticipa tutti: «La operiamo noi, a nostre spese».

A febbraio 2016 Raffaella è in Italia, ospite del Bambino Gesù. Subisce l’intervento, riuscito alla perfezione, raggiunge gli amici a Novara, poi riparte per l’Etiopia con mamma Elisa. A un anno dall’operazione viene di nuovo accompagnata a Roma per un primi controllo di routine, tutto bene. Ma al secondo step c’è la brutta sorpresa. «Purtroppo sarà che Raffaella vive in una casa con pareti di fango – spiega la maestra Colombo – e l’umidità è alta, ma la condizione degli occhi è peggiorata. Per il sinistro serve un altro intervento di cross linking , per il destro un trapianto di cornea». Il Bambino Gesù replica: faremo noi gratuitamente. Si tratta di pensare al resto.

È così che la fiaba si trasforma in un racconto della fantasia della misericordia. Raffaella arriva in Italia e viene operata. Mentre gli alberi bellissimi lasciano e perdono le foglie, attorno alla scuola Giovanni XXIII, la vita continua e, come una sorgente, silenziosamente s’arricchisce di altri capitoli.

Raffaella torna in Etiopia, ma le servono altri due interventi per evitare di non vedere più per sempre. «Questa è la cattiva notizia – continua ora raggiante Elena Colombo –. La buona è che siamo stati chiamati dal Bambino Gesù e ci hanno detto che possono di nuovo operarla gratuitamente. Non finiremo mai di ringraziarli». E così scatta uno straordinario slancio di solidarietà. Non c’è da pagare l’operazione, c’è il viaggio e un contributo perché Raffaella possa vivere meglio nel suo Paese. «Devo dire – sottolinea Ornella Porzio, dirigente – che si è sviluppata un’azione di solidarietà incredibile che ha coinvolto i ragazzi e i genitori e che continua».

«Guardate il Natale con gli occhi di Raffaella», è lo slogan azzeccatissimo per raccogliere i fondi. È scritto sui volantini appiccicati alle vetrate d’ingresso, alle pareti, su piccoli depliant. Perché quando la scintilla scocca, provoca mille idee e molte altre scintille. Raffaella è di nuovo in Africa ma torna a gennaio. Verrà di nuovo operata all’occhio sinistro e sarà in lista d’attesa per una cornea compatibile con il destro. «Non sappiamo quanto tempo servirà. Rimarrà a Casa Ronald, dove alloggiano famiglie di piccoli pazienti dell’ospedale». Ma c’è il viaggio e soprattutto c’è il “dopo”.

Su Facebook s’apre una pagina, «Guardiamo il Natale con gli occhi di Raffaella ». Il resto è quotidiana cronaca di un gesto bello, genuino, trasparente, caldo. «Aiutate Raffaella», ripetono in coro, esattamente come fanno i bambini, i suoi amici. Amici che si sono aggiunti via via, perché quelli che l’hanno aiutata la prima volta sono passati ad altre classi, ma l’entusiasmo e la spontaneità dei nuovi sono contagiosi. Sulle pareti le fotografie dei loro incontri. Così anche sulla porta d’ingresso dell’aula. È vero. Bambini insieme a genitori, famiglie che affrontano con tutte le fatiche che sappiamo la vita, ma con il sorriso di chi dona con gioia. «Vivi, canta, sogna», ripete spesso papa Francesco. Loro lo fanno, di cuore. E sarà un Natale caldissimo.

Avvenire

L’interesse decisivo. Nuova fase e patto tra le generazioni

Settimane sociali dedicate al lavoro sono state organizzate solo in due occasioni. La prima volta nel 1945, mentre si scriveva quella Costituzione che poi arrivò a mettere proprio il lavoro a fondamento della nostra convivenza. La seconda nel 1970, subito dopo l’«autunno caldo», mentre era in discussione lo Statuto dei lavoratori. In un momento in cui il Paese traghettava verso una nuova stagione storica. Anche oggi, come in quei due momenti, siamo in un passaggio di fase.

La crisi del 2008, intervenuta mentre l’Italia era già in declino, ha fatto pagare un costo molto alto a tante famiglie, donne e soprattutto giovani. Ora però il modello sta virando di nuovo, anche se la destinazione non è ancora ben definita. L’Italia si trova davanti a un bivio: o cadere ancora di più nella spirale dello sfruttamento e della disuguaglianza, subendo una digitalizzazione sfrenata che pretenda di organizzare l’intera società come una grande fabbrica; oppure incamminarsi verso un nuovo sentiero di sviluppo che, rilegando economia e società, metta al centro la creatività umana, arrivando a delineare una transizione migliore tra vita e lavoro resa possibile proprio dalle nuove possibilità tecniche. Per intraprendere la seconda strada, i giorni di Cagliari suggeriscono di seguire tre piste.

In primo luogo, puntare su educazione e formazione. La “persona intera” è fatta di tante dimensioni (cognitiva, emotiva, manuale, sociale) che vanno tutte stimolate e curate, avendo cura di attivare sia il sapere teorico che quello pratico. Nella consapevolezza che, in una prospettiva di sviluppo sostenibile, l’inclusione è un principio economico.
In secondo luogo, creare un ambiente favorevole a chi il lavoro lo crea e a chi lo esercita. Un obiettivo che in Italia appare ancora molto lontano: riduzione delle tasse, lotta alla burocrazia, sostegno agli investimenti. Tutti temi concreti su cui si deve cominciare a lavorare.

Infine, rinnovare lo sforzo per l’umanizzazione del lavoro. Solo il lavoro che riconosce la dignità del lavoratore e lo ingaggia nella produzione di un valore (non solo economico) rende sostenibile la competitività e permette di fronteggiare la sfida della digitalizzazione.

La buona notizia oggi è che, per fare la quantità di lavoro, occorre puntare sulla sua qualità: il che significa passare da un’economia della sussistenza – come fabbricazione e sfruttamento – a un’economia dell’esistenza – produttrice, cioè, di saper-vivere e di saper-fare – è la via per salvare e insieme umanizzare il lavoro.
Realizzare una tale conversione non è facile. Tanto più per un Paese come l’Italia che viene da un lungo periodo di disorientamento.
Ma è possibile semplicemente perché, seppure a frammenti, c’è già una parte della società italiana che si muove in questa direzione.

La strada da fare e ancora molta, ma la direzione tracciata. Cagliari ci lascia tre insegnamenti importanti. In primo luogo, la gravità della fase richiede uno sforzo particolare. Se l’Italia vuole invertire il suo declino occorre realizzare un patto intergenerazionale che miri a sciogliere una contraddizione che rischia di essere micidiale: chi ha il patrimonio non investe perché vuole proteggersi (gli anziani) e chi vuole investire non può farlo perché non dispone delle risorse necessarie e anzi è gravato dal debito accumulato (i giovani). Ciò significa proporre all’Italia un grande patto intergenerazionale basato sulla rinnovata centralità del lavoro così da far emergere il “bene comune” – vero e proprio inter-esse – che lega anziani e giovani: l’avvio di una stagione qualitativamente diversa di sviluppo (basata sulla centralità del lavoro) a vantaggio delle giovani generazioni come condizione per la sostenibilità della protezione degli anziani (che vivono più a lungo). Una opportunità che richiede la creazione di nuovi strumenti (finanziari, fiscali, contrattuali, etc.) per mettere in gioco il patrimonio (etimologicamente, il dono-del-padre) mobiliare e immobiliare accumulato in favore della ripartenza delle giovani generazioni.

In secondo luogo, per procedere sulla strada tracciata a essere decisivo è dotarsi di un metodo. Non si tratta di creare nuovi uffici o altra burocrazia. Così come Cagliari non è stato un semplice convegno, ma un momento di un percorso, fatto con voci e registri comunicativi diversi, cominciato diversi mesi fa e che ci ha messo sulle tracce dei tanti che in Italia concretamente trovano nuove e buone soluzioni al tema del lavoro e della crescita. Un percorso che non termina con la fine dei lavori di Cagliari, ma prosegue nelle diocesi e nelle città di ciascuno. Denuncia, ascolto, buone pratiche, proposte: questo è il nuovo metodo che va consolidato e che apre una nuova stagione della presenza del mondo cattolico in politica e nella società.

Proprio sul punto finale, quello della proposta, si concentra il terzo e ultimo suggerimento della 48ª Settimana Sociale. C’è bisogno di avanzare proposte precise in grado di fare i conti con la complessità della realtà. Per questo, ieri sono state date al presidente Gentiloni 4 proposte che speriamo possano trovare rapida attuazione. Ma è importante altresì che le proposte guardino nella stessa direzione, disegnando un po’ per volta quel futuro che ci piace e che desideriamo raggiungere. La primavera che si annuncia col cambio di paradigma economico in corso va accompagnata e seguita. Nella consapevolezza che, come altre volte in passato, senza il contributo coraggioso della radice cattolica il Paese non ce la farà. Non ce la può fare. È questa la responsabilità che la 48ª Settimana Sociale lascia in eredità: l’umanesimo cristiano della concretezza è, oggi come ieri, il codice più appropriato per ricomporre fede e storia.

Avvenire

L’eredità di Dio è la libertà

Quanto più a lungo si protrae il nostro sradicamento dall’ambito vitale che ci è proprio, sia dal punto di vista professionale che da quello personale, tanto più fortemente ci è dato percepire che la nostra vita, a differenza di quella dei nostri genitori, ha un carattere frammentario. La nostra esistenza spirituale resta incompiuta
Dietrich Bonhoeffer, Lettera a Eberhard Bethge, 1944

L’ideologia è l’anti-speranza. La speranza nasce dentro la realtà imperfetta dell’oggi e si nutre di un domani migliore che ancora non conosce ma attende. È la virtù-dono degli attraversamenti dei deserti, quando si cammina nell’arsura sapendo che alla fine ci aspetta una terra promessa, che è reale anche se nessuno l’ha mai vista. La speranza ci fa vedere Canaan mentre siamo ancora a nelle acque di Meriba. L’ideologia, invece, vive di un oggi già perfetto, e non attende nulla di ciò che non conosce già. Ci lascia schiavi in Egitto per tutta la vita, ma ha la capacità straordinaria di trasformare la schiavitù delle fabbriche di mattoni nel “paese dove scorre latte e miele”. La terra promessa è quella che si abita già. Tipica del malato di ideologia è quindi l’assenza di sorprese e di stupore. Non si può stupire perché non c’è nulla che gli interessi del mondo presente e futuro che non sia già accaduto, conosciuto, perfettamente controllato e dominato. Lo stupore ha bisogno dell’ignoranza (solo i bambini forse si stupiscono veramente) e del desiderio che nasce dalla consapevolezza che la vita è qualcosa di meraviglioso le cui pagine più belle devono ancora essere scritte. E ci aspettiamo tutto, sempre, davvero. Ma quando ci siamo convinti di essere entrati finalmente in possesso del segreto della vita e di conoscere tutto ciò che c’è da conoscere sotto il sole, non resta più nulla da attendere né da sperare. Si spengono i desideri, e iniziamo a morire. L’ideologia è la trasformazione dell’idea in realtà, e lo “scarto” che resta tra l’ideale e il reale viene negato o vissuto come un male, un peccato, uno scandalo. La speranza, invece, coltiva e accudisce il reale di oggi perché possa fiorire domani in qualcosa di nuovo, e lo scarto è il terreno del desiderio e dell’attesa. Il giàdell’ideologia maledice il non ancora, la speranza lo benedice perché lo vive come inizio dell’avveramento della promessa.

La Bibbia è anche un grande trattato sulla nascita, sviluppo e giustificazione delle ideologie. È una sintassi e, spesso, una semantica della natura tremenda del pensiero e dell’agire ideologico. Quel popolo ha visto Gerusalemme invasa, il tempio diventare un mucchio di macerie, i re e i ministri uccisi e deportati. Hanno creduto ai falsi profeti, si sono nutriti di illusioni, non è rimasto nulla del loro regno. E ora, nonostante tutta l’evidenza contraria, continuano a produrre ideologie, a offrire una loro interpretazione di quella rovina. Geremia può solo raccontare un’altra storia, quella di sempre, perché è l’unica storia che conosce: «Geremia disse a tutto il popolo: “Forse che il Signore non si ricorda e non ha più in mente l’incenso che voi bruciavate nelle città di Giuda…? Il Signore non ha più potuto sopportare la malvagità delle vostre azioni né le cose abominevoli che avete commesso… Non avete camminato secondo la sua legge, i suoi decreti e i suoi statuti, per questo vi è capitata questa sventura, come oggi si vede”» (Geremia 44, 20-23).

Giunti ormai quasi alla fine del nostro commento al libro di Geremia, dobbiamo tentare di rispondere a una domanda difficile, ma ineludibile: e se l’ideologia fosse stata quella di Geremia? E se l’interpretazione di Geremia fosse diventata quella vera solo perché fatta propria dall’élite di intellettuali che fissarono il canone? E se era il culto alla “regina del cielo” ad essere quello vero, quello buono della gente semplice, delle donne umili e oppresse? Chi ci dice che Geremia parlava nel nome del Dio vero e i suoi connazionali in nome degli idoli sbagliati? Nessuno ce lo può dire con certezza, né possiamo escludere che alcune di queste cose siano accadute realmente. Come nessuno ci può garantire che Geremia e tutti i profeti biblici fossero soltanto degli auto-ingannati come tutti gli altri falsi profeti, nevrotici convinti di ascoltare voci che non c’erano. O che furono le vicende e i conflitti interni al potere religioso di Israele a far chiamare “veri” e buoni gli oracoli di alcuni profeti, e falsi tutti gli altri; e che la scuola rabbinica che a un certo punto scelse Geremia o Isaia come profeti occultò gli oracoli di altri profeti suoi concorrenti. Questa domanda è una domanda seria perché sta alla radice dell’intera Bibbia e di ogni umanesimo religioso (e forse anche laico), perché è, semplicemente, di quella grandissima esperienza umana che si chiama fede. La fede è prima di tutto fiducia in un racconto di un’esperienza storica di un rapporto tra un popolo e il suo Dio. Prima c’è questa fede, e poi viene l’esperienza soggettiva di credere all’esistenza di Dio. Possono anche venire contemporaneamente, ma la prima è quella decisiva. Anche perché quando credere in Dio non è o non diventa credere alla parola di quelle persone concrete che quel Dio me lo hanno raccontato dentro le vicende della loro storia, quella credenza dura poco, serve a pochissimo, non incide nella vita, e se incide fa solo del male. Senza prima credere nel capitale narrativo dei padri e delle madri nella fede, non sapremo mai se quella voce che un giorno ci ha chiamato per nome era un fantasma, un idolo, un auto-inganno, o semplicemente un nulla.

Questa fede non è una garanzia, né una rassicurazione che non stiamo credendo a una storia non vera. La libertà del credente sta proprio nella possibilità reale di aver creduto a un grande inganno collettivo, sta qui la sua bellezza e il suo rischio. La fede può non essere un’illusione perché è possibile che lo sia – e quando iniziamo a essere sicuri dell’impossibilità dell’illusione stiamo già calpestando il terreno dell’ideologia. Troppe persone non riescono a maturare dentro esperienze collettive di fede perché non sono educate ad abitare questo rischio esistenziale, e così crescono con fedi troppo piccole per farle diventare persone adulte.
Il dio astratto diventa concreto quando qualcuno raccontandomi una storia mi dice quale è il nome di Dio. E nella Bibbia il nome è anche l’incarnazione dell’idea di Dio in una esperienza storica e concreta, il Logos che viene ad abitare in mezzo a noi. Il nome è una parola rivelata in un incontro concreto tra un uomo con un nome (Mosè) e una voce, sulle pendici di un monte con un nome (Oreb), per liberare un popolo schiavo in un luogo (Egitto).Nome dice storia, geografia, comunità, tradizione. Per questo il nome YHWH è custodito nel cuore stesso della Legge, è l’intimità di un rapporto concreto e vivo, che va pronunciato senza pronunciarlo.

Non stupisce allora che alle donne che «preparavano focacce per la regina del cielo con la sua immagine» (44,23), Geremia risponda: «Adempite pure i vostri voti e fate pure le vostre libagioni. Tuttavia ascoltate la parola del Signore, voi tutti di Giuda che abitate nella terra d’Egitto. Ecco, io giuro per il mio nome grande, dice il Signore. Mai più il mio nome sarà pronunciato in tutta la terra d’Egitto dalla bocca di un uomo di Giuda che possa dire: “Per la vita di YHWH!”» (44,26). All’immagine della regina del cielo impressa sul pane, Geremia contrappone il nome. Il nome non è l’immagine. Nella Bibbia, l’unica immagine vera e buona di Dio è l’Adam. Ma noi non siamo il nome di Dio. Siamo fatti a sua immagine, ma non ereditiamo il suo nome.
Questo dialogo tra nome e immagine ci apre qualcosa di importante dell’umanesimo biblico e della sua antropologia. La Bibbia ci dice che nel nostro essere portiamo impressa l’immagine di Dio, ma non portiamo il suo nome. A differenza delle generazioni umane, il Dio biblico è un Padre che non imprime il suo nome in quello dei suoi figli. Ci lascia il nostro nome e ci imprime la sua immagine. La nostra libertà è talmente grande da essere anche libertà dal nome del Padre, ma non dall’immagine che resta anche nei figli di Caino.
Chi vuole leggere la parola di Dio sulla terra ha la Bibbia e altri testi sacri (e profani: molta letteratura e poesia). Chi vuole udire la voce di Dio può ascoltare i profeti. Ma chi vuole vedere la cosa più divina presente sotto il sole può solo guardare la cosa più umana che c’è sulla terra: un uomo, una donna. È per salvare questa altissima dignità degli umani che la Bibbia non ci consente di rappresentare altre immagini della divinità. Sarebbero meno belle e vere di quelle che già abbiamo attorno a noi, ogni giorno, guardandoci l’un l’altro. Quando sulla terra apparve il primo uomo, l’universo ha capito qualcosa in più dell’immagine di Dio.

Rappresentare una divinità su una focaccia o su una pietra dice giàall’uomo biblico che quel Dio rappresentato è un idolo, perché, ci dice: l’unica immagine buona di quel nome sei tu. Sta anche qui una radice della povertà pittorica della tradizione del popolo d’Israele: la proibizione di rappresentare l’immagine di YHWH è diventata anche un freno a rappresentare l’immagine della sua immagine. Non siamo Dio, ma gli assomigliamo molto. Siamo la cosa che più gli somiglia sotto il sole. Gli somigliamo al punto che la prima e più grande tentazione dell’uomo è fare di se stesso dio, e quindi diventare idolatra di se stesso.
Queste sul “nome” sono le ultime parole di Geremia. Poi uscirà di scena senza che Baruc ci narri la fine della sua vita, forse per non rischiare che le vicende della sua biografia eclissassero la sua parola non-sua. Ma sarà con la stupenda benedizione di Geremia a Baruc che concluderemo domenica prossima la nostra ricerca dell’alba dentro la mezzanotte. Nel frattempo sostiamo e riposiamo il cuore contemplando l’immagine più bella sotto il sole, che risplende e rischiara anche le notti più buie del mondo.

Avvenire

I santi del 31 Ottobre 2017

I santi del 31 Ottobre 2017
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San VOLFANGO DI RATISBONA   Vescovo
Svevia, Germania, ca. 924 – Pupping, Austria, 994
Nato nel 924 in Svevia, diventò monaco a Ginsiedeln. Inviato missionario in Ungheria nel 971, l’anno successivo fu eletto vescovo di Ratisbona. Riorganizzazò la diocesi e operò per la sua prosperità fino alla morte che giunse nel 994….
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Sant’ ANTONINO DI MILANO   Vescovo
m. 671
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San QUINTINO DI VERMAND   Martire
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San STACHYS   Discepolo di s. Paolo, vescovo di Costantinopoli
I sec.
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Santa MARIA DELL’IMMACOLATA CONCEZIONE (MARíA ISABEL SALVAT ROMERO)   Vergine
Madrid, Spagna, 20 febbraio 1926 – Siviglia, Spagna, 31 ottobre 1998
María Isabel Salvat Romero, nativa di Madrid in Spagna, avvertì nell’adolescenza un forte desiderio di consacrarsi a Dio per servire i poveri. Entrò quindi nelle Sorelle della Compagnia della Croce, assumendo il nome di suor Maria della Purissima della Croce. Fu Madre Generale per 22 anni, rieletta per tre mandati consecutivi. Fede…
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Santa LUCILLA DI ROMA   Vergine e martire
Lucilla è una santa poco conosciuta, dal nome antico e familiare. Era attribuito dagli antichi romani alle bambine nate alle prime luci del nuovo giorno. Lucilla, diminutivo di Lucia, vuol dire appunto ”nata all’alba”, così come Crepusca significa ”nata al tramonto”, o anche ”piccola luce”. Di Lucilla martire non sappiamo nulla di certo, …
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Sant’ ALFONSO RODRIGUEZ   Vedovo, Religioso gesuita
Segovia, Spagna, 25 luglio 1533 – Palma di Maiorca, 30 ottobre 1617
Alfonso era un mercante, nato a Segovia, in Spagna, nel 1533. Si era sposato e aveva avuto due figli ma fu sconvolto dalla perdita della moglie e dei beni. A 35 anni tornò a scuola, proseguendo faticosamente gli studi interrotti in gioventù. Si presentò, quasi vecchio, come novizio in un convento della Compagnia di Gesù. Venne acc…
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Sant’ EPIMACO (EPIMACHIO) DI MELUSIO   Martire
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San FOILLANO DI FOSSES   Abate
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Beato CRISTOFORO DI ROMAGNA   Sacerdote
† Cahors, Francia, 1272
Cristoforo, inizialmente sacerdote diocesano, esercitava il ministero di parroco, forse presso Cesena in Romagna, anche se il suo culto presso tale città potrebbe risalire solo al XVIII secolo. All’età di circa quarant’anni lasciò tutto per farsi seguace di San Francesco d’Assisi ed entrare nel nascente Ordine dei Frati Minori. Svolse il…
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Beata MARIA DE REQUESENS   Vergine mercedaria
† 1345
Di nobile origine catalana, la Beata Maria de Requesens, distribuì il suo ricco patrimonio ai bisognosi ed entrò fra le prime religiose mercedarie appena fondate da Santa Maria de Cervellón. Ben presto si distinse in quel primo Ospedale convento di Sant’Eulalia in Barcellona, per grandissime virtù e per i tanti miracoli attribuiti tanto da essere considerata…
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Beato GIOVANNI PANTALIA   Religioso gesuita, martire
Prizren, Kosovo, 2 giugno 1887 – Scutari, Albania, 31 ottobre 1947
Fratel Gjon (albanese per Giovanni) Pantalia, nato in Kosovo, entrò nella Compagnia di Gesù, ma per umiltà volle restare fratello coadiutore. Fu l’animatore principale, a livello sociale e culturale, del Collegio Saveriano dei Gesuiti a Scutari, istituto che curava la formazione della futura classe dirigente dell’Albania. Dur…
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Beato TOMMASO BELLACCI DA FIRENZE   Religioso
Firenze, ca. 1370 – Rieti, 31 ottobre 1447
Figlio di macellai, Tommaso Bellacci (o Tommaso di Scarlino) vive a Firenze una giovinezza irrequieta. Trentenne, nel 1400 entra tra i Minori osservanti di Fiesole. Resterà semplice fratello laico. Bernardino di Siena lo invia a Scarlino (Grosseto), dove fonda o riforma conventi. Tra essi quello di Monte Muro. In vista del Concilio di Firenze, viaggia in Ori…
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Beato LEONE (LEON) NOWAKOWSKI   Sacerdote e martire
Byton, Polonia, 28 giugno 1913 – Piotrków Kujawski, Polonia, 31 ottobre 1939
Il beato Leon Nowakowski, sacerdote diocesano polacco, nacque a Byton (Cuiavia) il 28 giugno 1913 e morì a Piotrków Kujawski tra il 31 ottobre ed il 1° novembre 1939. Fu beatificato da Giovanni Paolo II a Varsavia (Polonia) il 13 giugno 1999 con altri 107 martiri polacchi….
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Beato DOMENICO COLLINS   Religioso gesuita, martire
Youghal, Irlanda, 1566 circa – 31 ottobre 1602
Si ritiene che Domenico Collins nacque intorno all’anno 1566 nella città di Youghal, nella regione di Cork in Irlanda. Di là, quando era più o meno ventenne, si trasferì in Francia. Ivi abbracciò la carriera militare, e compì progressi tali da essere promosso in breve tempo capitano. Nell’anno 1598 prese la decisione di seguire una vita radicalmente diversa….
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Beata IRENE (MARIA MERCEDE) STEFANI   Missionaria
Anfo, Brescia, 22 agosto 1891 – Gekondi, Kenia, 31 ottobre 1930
Suor Irene Stefani, al secolo Mercede Stefani, nasce il 22 agosto 1891 ad Anfo nella Val Sabbia (Brescia). Nel 1911 entra nell’Istituto delle Missionarie della Consolata e il 12 gennaio 1912 veste l’abito religioso prendendo il nome di Irene. Il 29 gennaio 1914 emette la professione religiosa e alla fine dell’anno parte per le Missioni in K…
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