Ancora sulla fotografia del piccolo Alan Kurdi

L’Osservatore Romano

Davanti alla foto del piccolo profugo annegato nell’Egeo «posso girare la pagina e tornare alla mia vita o affrontare il dolore come fosse uno dei miei e aprire il mio cuore e la mia intelligenza» scrive Colombo in «Imago pietatis».
(Gaetano Vallini) Alcune immagini vanno dritte al cuore e restano lì per sempre. Non ci lasciano in pace, perché suscitano stupore, incredulità, indignazione, rabbia, commozione, compassione, pietà. Ci mettono di fronte alla nostra coscienza e ci impongono di prendere posizione. Tra queste immagini, che costituiscono una sorta di memoria collettiva dell’umana stoltezza, c’è quella di Alan Kurdi, il bambino di tre anni annegato nell’estate del 2015 nel Mar Egeo mentre con la famiglia tentava di fuggire dalla guerra in Siria. Tutti la ricordano: mostra il suo corpicino senza vita adagiato carponi sulla battigia, in una posizione così naturale da farlo sembrare addormentato, il viso carezzato dalla risacca. Quella foto — scattata da Nilüfer Demir, dell’agenzia turca Dha — testimonia il tragico epilogo di un disperato viaggio, uno dei tanti finiti in tragedia nel Mediterraneo, ma è anche l’inizio di qualcosa di inatteso: un processo di radicamento in bilico tra l’esaltazione mediatica collettiva, amplificata dalla velocità di diffusione delle immagini sulla rete, e la manifestazione, intensa e personale, dei nostri sentimenti più umani. 
Ma perché proprio quella foto? Fausto Colombo, docente di teoria della comunicazione e dei mass media presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, cerca di rispondere a questa domanda non limitandosi a utilizzare gli strumenti scientifici dello studioso, ma dando spazio alle proprie emozioni, cercando l’origine della commozione che prova ancora oggi quando osserva l’immagine del piccolo Alan. Il frutto di questa ricerca è racchiuso in un interessante libro intitolato Imago pietatis. Indagine su fotografia e compassione (Milano, 2018, Vita e Pensiero, pagine 119, euro 13), una sorta di diario che segue il “viaggio” di questa foto, certamente più lungo di quello dello sfortunato bimbo — e di quella del poliziotto che con delicatezza raccoglie il corpicino sulla spiaggia turca di Bodrum — ricostruendo nella sua totalità «il processo che porta l’immagine di un bambino di tre anni, ripresa da una sconosciuta fotografa turca, a divenire icona universale». 
Dal momento dello scatto la breve vita di Alan — Aylan lo avevano chiamato in un primo momento — si trasforma infatti in qualcos’altro, in un oggetto culturale il cui destino segue una via propria, con la pervasività tipica di questi tempi, «ma inusuale nella forza emotiva, soprattutto considerando che Alan è solo un bambino, solo una delle moltissime vittime inghiottite dal mare», spiega Colombo. Che aggiunge: «Le sue foto infatti non soltanto si diffondono, ma provocano emozioni e reazioni fortissime, si insinuano nelle scelte politiche, mutano (almeno per un breve tempo) la percezione del migrante nell’opinione pubblica occidentale, diventando piano piano il simbolo potente di un fenomeno di dimensioni epocali». La morte di Alan diviene «il segno di una sofferenza più ampia, anzi di una ferita che attraversa il nostro mondo. Diventa l’immagine di ogni diversità e di ogni ingiustizia fondata sull’ineguaglianza». 
L’autore segue dunque la foto nella rete, che si diffonde secondo uno schema ormai ben definito: la scintilla (la notizia e il tweet iniziale), i primi piccoli fuochi (i retweet), poi l’esplosione (le condivisioni sui vari social), quindi il contagio a livello globale e infine la normalizzazione, che consente a nuove notizie di soppiantare le vecchie. Ma questo non vuol dire che la storia di Alan scompaia. «Essa piuttosto scivola altrove, cambiando registro narrativo e permettendo un’elaborazione che la rapidità della diffusione e l’onda emotiva principale non consentono», annota Colombo, riportando quindi come si inizi ad approfondire la vicenda della famiglia di Alan, ma anche come, persino in questo caso, parta una catena di fake news che tentano di smontare la tragedia, fino a negarla. Senza dimenticare quanti, invece, usano creativamente la foto del bimbo, modificandola e inserendola in contesti diversi, per usarla come strumento di denuncia politica. 
Lo studioso fa poi un passo ulteriore, portando l’analisi a un livello più alto: quello del rapporto tra fotografia e compassione. Colombo indaga la forza simbolica dell’immagine fin dagli albori della fotografia, con il suo profondo legame con il tempo e la morte, senza tralasciare il dolore innocente dei bambini. E lo fa seguendo le riflessioni di noti studiosi — Susan Sontag, Roland Barthes, John Berger — e attraverso il racconto delle storie delle più famose immagini di guerra e di sofferenza e dei reporter a cui quegli iconici scatti hanno talvolta cambiato la vita: il corpo esanime di Che Guevara immortalato da Marc Hutten, il miliziano spagnolo colpito a morte ripreso da Robert Capa, il monaco buddista che si dà fuoco a Saigon documentato da Malcom W. Browne, la bambina ustionata dal napalm nella foto scattata da Nick Ut in Vietnam, la mamma somala che sorregge il corpo esanime del figlio avvolto in un lenzuolo bianco ritratta da James Natchtwey, la bimba e l’avvoltoio nel Sahel catturati dall’obiettivo di Kevin Carter. La ricerca si trasforma quindi da indagine sui meccanismi comunicativi ad analisi del sentire umano di fronte alla tragedia, chiamando in causa, in prima battuta, la consapevolezza e la responsabilità del fotografo. 
A tal proposito Colombo cita Nilüfer Demir, arrivata a sostenere di aver pensato di essere nata per realizzare proprio quelle foto di Alan, intuendone la potenza simbolica. Foto che giustificherebbero l’orrore che rappresentano con un duplice mandato morale: testimoniare e imparare dalla crudezza della realtà, «come se questo compito rendesse migliori i testimoni e i loro ascoltatori», chiosa l’autore. Che però resta scettico, incerto se pensare agli scatti di Demir «come a un automatismo professionale cui nessun fotografo può fare a meno di obbedire davanti a qualunque orrore, o a un sincero sentimento di partecipazione al dolore del mondo, così brutalmente condensato in un piccolo corpo adagiato sulla battigia». 
Seguendo questo ragionamento, la ricerca prosegue per arrivare alle radici della compassione, nella consapevolezza che indagini su foto come quelle di Alan «portano sempre dentro di sé un viaggio, insieme fuori, verso la realtà, e dentro, verso il profondo di noi stessi e delle nostre emozioni». Ma sono anche esperienze che pongono l’osservatore, al pari del fotografo, di fronte a un bivio: così come certe foto possono essere prodotte con cinismo o con partecipazione, allo stesso modo possono essere guardate con indignazione o voyeurismo. E questa intrinseca e ineludibile ambiguità ci mette dinanzi a una scelta con implicazioni importanti. «Posso davvero commuovermi per Alan e non riflettere sulle politiche che escludono i migranti? Sugli atteggiamenti da assumere in astratto (molti politici lo fanno continuamente, anche per ragioni strumentali) non deve prevalere in me la consapevolezza delle conseguenze sui corpi delle persone, che il cadaverino di Alan mi mette davanti agli occhi?». Sono questi al fine gli interrogativi cruciali che pone Colombo. 
Interrogativi che solo pochi giorni fa sono stati riproposti con forza da un’altra immagine straziante: quella del giovane padre salvadoregno, Óscar Alberto, morto annegato con la figlioletta di 23 mesi, Valeria, nel Rio Grande, nel tentativo di raggiungere gli Stati Uniti dal Messico. «Qui — ci dice Colombo, commentando al telefono quest’ultima foto destinata a restare tragicamente impressa nella memoria al pari di quella di Alan — emerge il gesto emotivamente molto forte del braccio della bambina attorno al collo del padre: un estremo abbraccio nella morte che ci richiama al nostro essere umani, perché tutti siamo figli. Se guardiamo questa foto e quella di Alan, e ci facciamo trascinare fino in fondo, esse ci costringono a fare una cosa che non vogliamo fare: riconoscere che siamo dinanzi a un problema che riguarda persone come noi». Questo obbliga a cambiare prospettiva, perché — spiega lo studioso — oggi i «migranti diventano un oggetto altro. Basta vedere la violenza con cui vengono trattati sui social. Oppure perché quello che vogliamo guardare non sono loro, ma i trafficanti di uomini, e quelli che li salvano, sempre più spesso equiparati ai trafficanti, perché il meccanismo narrativo è questo». 
«Ciò — aggiunge Colombo — ci impedisce di farci la domanda di fondo: ma quello lì è come me o no? Perché se è un essere umano come me bisogna salvarlo. Sono convinto che se qualcuno dei leoni da tastiera che scrivono “affondateli”, “rimandateli indietro”, fosse su una nave, tenderebbe le mani e li raccoglierebbe. Perché quando l’altro è davanti a noi è molto più difficile prendere le distanze. Ecco, queste foto ci avvicinano nella forma della vittima a queste persone». 
La riflessione finale ci riporta alle conclusioni del libro. Davanti alla morte di Alan e alla sua immagine — così come a quelle del papà e della figlia — «posso girare la pagina e tornare alla mia vita o affrontare il dolore come fosse uno dei miei e aprire il mio cuore e la mia intelligenza. Le immagini attendono la mia scelta. L’etica, come diceva Wittgenstein, non si può esprimere. Ma la strada che scelgo non è indifferente». E se scegliamo la strada dell’empatia, come ci invita a fare Colombo, non possiamo non tornare a riscoprire pienamente la nostra umanità e a far nostre le fatiche e le sofferenze di altri uomini. In tempi difficili come quelli che stiamo vivendo, in cui alcuni alzano la voce per additare nemici inesistenti, costruendo muri e alimentando paure ingiustificate, anche ricordare Alan, e con lui Valeria e il papà, è un segno di resistenza, un modo per contrastare l’inquietante deriva delle nostre società.
L’Osservatore Romano, 5-6 luglio 2019